Pubblichiamo qui di seguito l’intervento di Liliana Picciotto, responsabile per la ricerca storica presso la Fondazione CDEC, al Primo Forum Nazionale delle Donne Ebree di Italia tenutosi a Palazzo Marino il 9 novembre 2022.
Durante il suo intervento la storica della Fondazione CDEC ha raccontato della sensibilità e disposizione emotiva necessarie per potere ascoltare e raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah e non solo.
« Ringrazio per l’onore di essere stata invitata a questo incontro e in particolare Susanna Schiaky, presidente dell’ADEI Wizo Italia, per aver concepito e progettato l’evento.
Per cominciare, prendo in prestito le parole di un grande intellettuale, giovane musicista e compositore che a Bologna tra il 1943 e il 1945 si adoperò per fabbricare centinaia di documenti falsi agli ebrei minacciati di morte, mettendosi continuamente in pericolo e finendo scoperto e arrestato. Finì la sua vita ad Auschwitz. Il suo nome, Mario Finzi, non è molto noto, l’abbiamo da poco riscoperto al CDEC conducendo una ricerca sulla partecipazione degli ebrei alla resistenza. Ecco che cosa dice, e ce lo dice al di là del tempo, qualcosa valido per noi oggi e per il futuro: “Ognuno di noi ha l’illusione di vivere di una sola vita, della propria vita, ma in realtà vive tante vite quante sono le persone con le quali viene in rapporto. Ed ogni nostro rapporto che non sia superficiale lascia qualcosa di sé nello spirito dell’altro e fa si che la vita di questo diventa vita nostra”.
Nel corso della mia carriera di storica ho conosciuto tante persone, fisicamente, o anche solo per aver letto il racconto della loro vita. Mi sono diventate tutte amiche, anche se non ci sono più e sono scomparse da questa terra, io non le ho perse. Ancora mi parlano, mi dicono che cosa devo fare, come devo comportarmi, restano presenze vive, come Mario Finzi.
Ho lavorato ad alcuni progetti fondamentali sul nostro passato, dei quali vi voglio parlare: a) sugli ebrei vittime della Shoah, base per Il libro della memoria, e per il film Memoria, b) su coloro che hanno avuto la possibilità di salvarsi, base per il libro Salvarsi, c) su quelli o quelle che hanno fatto la resistenza come Silvia Elfer o Rita Rosani, progetto oggi in corso d’opera d) sugli ebrei che nella seconda metà del ‘900 hanno lasciato i loro Paesi del Mediterraneo, paesi arabi, per affrontare l’esilio e si sono poi, felicemente, stabiliti in Italia.
In tutti questi casi, la storia scritta, quella che si legge sui documenti e sui libri, non è mai stata sufficiente, ha dovuto per forza essere integrata con la storia orale, con l’interrogazione diretta cioè dei protagonisti. La storia orale è una novità rispetto alla storia tradizionale in cui uno studia e scrive un libro, l’altro apre le pagine, legge e coglie quello che gli interessa da quel tal libro. Nel nostro caso, c’e invece l’intermediazione dell’umano. La testimonianza costituisce, di fatto, una nuova fonte, appositamente costruita tramite la diretta e determinante partecipazione dello storico stesso e l’atto consapevole di una persona che vuole lasciare traccia di sé e di ciò che gli è accaduto. L’aspetto relazionale, praticato attraverso il meccanismo delle domande e delle risposte, è determinante e nasce una specie di patto di fedeltà e di connivenza tra le due parti.
Spesso succede che l’intervistato, conquistato dal suo interlocutore, tiri fuori documenti e fotografie che servono a completare il quadro biografico. Anche la presenza di figli e nipoti serve a validare la testimonianza dal punto di vista morale. Spesso viene detto esplicitamente: “questa è la mia famiglia, vede come è bella e numerosa? E’ la mia vittoria su Hitler che volevaannientarci tutti”. Oppure: “Loro volevano trattarmi come una cosa, come un animale, ma io sono una persona e nella mia vita ho potuto dimostrarlo”, oppure “Io allora ero un ladruncolo di strada facevo parte di una banda di monelli, poi sono diventato medico primario di quest’ospedale, è stata la mia rivincita”. Queste proposizioni si pronunciano solo se si sente che chi ci è vicino e ci guarda negli occhi è qualcuno di cui fidarsi, cui affidare i sentimenti, che verranno capiti, rispettati e custoditi.
Naturalmente, per praticare la storia orale, occorrono dei prerequisiti che consistono nel conoscere bene il contesto in cui avverrà l’interrogazione. Prima di iniziare il film Memoria, magistralmente diretto da Ruggero Gabbai, Marcello Pezzetti e io stessa abbiamo studiato per 18 mesi tutta la letteratura a disposizione, abbiamo imparato qualcosa da ogni documento ufficiale che riguardasse il meccanismo degli arresti, del restringimento delle persone nelle prigioni e nei campi di transito; abbiamo ricostruito le date di partenza dei trasporti verso Auschwitz e valutato ogni più piccolo segnale che ci aiutasse a formulare le domande giuste.
Per il secondo ciclo di rilevamento di storia orale, quello sui “salvati”, interessava ascoltare qualunque ebreo fosse stato presente nell’Italia occupata dai tedeschi avendo la pre-cognizione che il soggetto era stato, per due anni, in costante allarme per la vita sua e della propria famiglia; in preda a fortissime emozioni e paure; in continue sollecitazioni a lasciare il proprio “ubi consistam” fisico e psicologico per cercare nuovi rifugi; in incessante nomadismo e fuga.
Le interviste in questo caso sono state più di 600, condotte con la mia collega, purtroppo scomparsa, Chiara Ferrarotti. Ogni testimone, come è normale, ha partecipato avendo in testa finalità diverse: alcuni volevano lasciare la loro testimonianza sugli avvenimenti “prima che sia troppo tardi”; altri desideravano nominare i loro soccorritori, magari fino ad oggi dimenticati; altri volevano rendere omaggio ai padri e ai nonni che li avevano portati in salvo; altri ancora volevano, semplicemente, dire la loro opinione sugli avvenimenti di allora e rapportarli alla loro vita presente.
Abbiamo usato la tecnica dell’ascolto non passivo per cercare di ottenere da ciascuno le informazioni di base, utili al progetto: la composizione della famiglia, l’educazione del protagonista, la cultura famigliare prevalente, l’occupazione del capo-famiglia, la residenza abituale, il luogo e il tempo, dove la fuga prese l’avvio, se il capofamiglia si arrangiò da solo a trovare una soluzione per la salvezza, e, se non da solo, a chi ricorse. Poi, la modalità della fuga o del passaggio in clandestinità: se il capofamiglia dotò i componenti di documenti falsi, se aveva previsto una situazione di clandestinità e messo da parte del denaro; se la soluzione cercata fu il passaggio irregolare in Svizzera, come questo venne preparato e come si svolse. Se la famiglia ricevette il soccorso da partigiani, da medici, da ecclesiastici, da amici, da conoscenti, da colleghi di lavoro del padre. Occorreva inoltre sapere se la famiglia salva aveva avuto capacità di auto-controllo dinnanzi al pericolo, se aveva sviluppato capacità di arrangiarsi in situazioni di precarietà, quali mezzi materiali aveva a disposizione, se disponeva di informazioni utili per poter decidere, se in casa si possedevano o meno carte geografiche e mappe, se poteva contare su persone di cui fidarsi. Tutti questi elementi sono stati messi a confronto e oggetto di studio.
Volevo ancora sottolineare come nel rilevamento delle testimonianze, specialmente quelle riprese tramite video registrazione, tutto sia stato accuratamente osservato perché tutto conta: i silenzi, le ripetizioni, le smorfie, il movimento degli occhi, lo stringersi delle mani, il tenere in mano un fazzoletto, battere con un dito sul tavolo, fare o non fare rumore con un braccialetto, il riso, il pianto.
Alla fine, abbiamo raccolto presso il mio istituto, la Fondazione CDEC, un giacimento di memorie ebraiche del ‘900 fatto di un migliaio di testimonianze dirette, un deposito memoriale e culturale unico in Italia, fonte preziosa di conoscenza per studiosi e grande pubblico che potranno entrare in contatto diretto con i testimoni. Penso che sia stato creato così un vero presidio contro l’indifferenza e la non-conoscenza dell’altro».