La normativa antiebraica italiana sui beni e sul lavoro (1938-1945)

dal “Rapporto generale” della Commissione Anselmi

Avvertenza

Vengono qui proposti due capitoli del “Rapporto generale” della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, nota anche come Commissione Anselmi, dal nome del suo presidente Tina Anselmi. La Commissione è stata istituita dal Presidente del Consiglio dei ministri il 1° dicembre 1998 e ha terminato i suoi lavori il 30 aprile 2001, proprio con la pubblicazione del “Rapporto generale”.

I due capitoli del “Rapporto generale” vengono qui proposti in versione integrale, salvo alcuni interventi sulle sigle e abbreviazioni utilizzate nelle note.

Il “Rapporto generale” contiene numerosi altri capitoli, concernenti temi qui non trattati (come quelli dei furti e saccheggi, del processo postbellico di restituzione, etc.), o sviluppanti temi qui semplicemente menzionati. Esso quindi va letto nella sua interezza.

Il testo a stampa del “Rapporto generale” è edito dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, che ne cura la distribuzione (Palazzo Chigi, 00100 Roma).

Abbreviazioni e sigle

ACDEC = Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea

b. = busta

cart. = cartella

ACS = Archivio centrale dello Stato

dlg. = decreto legislativo

PCM = Presidenza del Consiglio dei ministri

ed. = edizione

MF = Ministero delle finanze

fasc. = fascicolo

SBE = Servizio beni ebraici

ins.= inserto

MI = Ministero dell’interno

l. = legge

DGDR = Direzione generale per la demografia e la razza

n. = numero

DGPS = Direzione generale della pubblica sicurezza

p. = pagina

AdS = Archivio di Stato (segue la città)

rd. = regio decreto

AS = Archivio storico (segue l’ente)

rdl. = regio decreto legge

sfasc. = sottofascicolo

vol. = volume

I.   LA NORMATIVA ANTIEBRAICA DEL 1938-1943 SUI BENI E SUL LAVORO

Premessa

In questo capitolo sono segnalate le misure e le altre vicende disposte o avvenute ai danni dei beni delle persone classificate “di razza ebraica”, nel territorio del Regno d’Italia secondo i confini del 1938, ad opera del regime fascista, dal 1938 al primo semestre 1943.

Sono presi in considerazione gli ambiti dei beni mobili e immobili, comprese le attività imprenditoriali nonché gli ambiti del lavoro dipendente e autonomo e dell’assistenza, per via dei loro riflessi quasi automatici sull’ambito dei beni. Tra le misure persecutorie qui non descritte, la principale fu quella che definì giuridicamente e amministrativamente la “razza ebraica” (rdl 1728/1938), mentre la più attinente agli ambiti qui trattati fu quella che dispose il lavoro obbligatorio (primavera 1942); per il quadro complessivo della normativa persecutoria si rimanda a M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000.

Il riepilogo qui proposto non può essere considerato esaustivo. Per alcune delle misure e vicende riepilogate vengono segnalati casi esemplificativi e quantificazioni. In alcuni casi, le misure qui riepilogate e i loro effetti concreti sono descritti con maggiore analiticità e completezza in altri capitoli del Rapporto.

1. Azioni e misure precedenti il varo della normativa persecutoria del 1938

1.a. Blocchi di nuove assunzioni e di nuovi esercizi

I provvedimenti ufficiali di divieto lavorativo emanati a partire dall’autunno 1938, furono preceduti da un lento crescendo di azioni di blocco di nuove assunzioni di ebrei.

Di quelle attuate dalla fine del 1936 alla fine del 1937, sono attualmente documentate le seguenti:

1.a.1 Nel dicembre 1936-gennaio 1937 Benito Mussolini si espresse contro nuove collaborazioni di ebrei al suo quotidiano “Il popolo d’Italia”[1].

1.a.2 Il 15 novembre 1937 Mussolini dette “disposizioni intese a evitare l’ammissione di israeliti alle scuole e accademie militari”[2].

1.a.3 Il 24 novembre 1937 l’amministratore delegato di una banca “di interesse nazionale” dette, con riferimento agli ebrei, la direttiva di “disporre per ‘stop’ assunzioni”[3].

Di quelle, assai più numerose, attuate nel corso del 1938, fino all’emanazione delle norme persecutorie, si possono menzionare le seguenti a mo’ di esempio:

1.a.4 Il 20 aprile 1938 il Ministero delle corporazioni, dietro “superiore determinazione”, avocò a sé, sottraendola ai Consigli provinciali delle corporazioni, la decisione in merito alla “iscrizione per nuovi esercizi” di “stranieri che si dichiarano di nazionalità germanica, polacca, romena ed austriaca, ecc.”, e chiese ai prefetti di comunicargli, assieme alle domande, “il luogo di provenienza e la religione professata dal richiedente”; il 21 ottobre seguente chiarì che l’avocazione in realtà aveva per oggetto “soltanto [gli] stranieri di razza ebraica”, aggiungendo che ad essi doveva ora applicarsi la nuova normativa varata dal governo[4] (vedi 2.c.5).

1.a.5 All’inizio di luglio 1938 Mussolini impartì ai capi di gabinetto dei Ministeri della guerra, della marina e dell’aeronautica una direttiva ufficiale per la non ammissione di ebrei nelle accademie militari[5].

1.a.6 Il 9 agosto 1938 il ministro dell’Educazione nazionale dispose il divieto di conferimento di supplenze e incarichi di insegnamento a “docenti di razza ebraica” (con possibilità di eccezioni autorizzate da egli stesso)[6].

1.a.7 Il 22 settembre 1938 la Confederazione fascista dei lavoratori delle aziende del credito e della assicurazione chiese ai segretari delle Unioni interprovinciali della stessa di “sottoporre” al federale le proposte di “eventuali ulteriori nuove assunzioni […] di elementi razza ebraica” [7].

1.b. Censimenti delle persone e delle proprietà

1.b.1 La legislazione antiebraica fu preceduta e preparata dal censimento nazionale dei possibili perseguitandi effettuato il 22 agosto 1938. Esso appurò la presenza nella penisola di 58.412 residenti (esclusi quindi i temporaneamente presenti) nati da almeno un genitore ebreo o ex-ebreo, suddivisi in 48.032 italiani e 10.380 stranieri residenti da oltre sei mesi. Di essi, 46.656 (37.241 italiani e 9.415 stranieri) erano iscritti a una comunità ebraica o comunque avevano dichiarato di essere ebrei[8]. La successiva definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” assoggettò alla persecuzione circa 51.100 persone (vedi 2.a.1).

Precedentemente e parallelamente a questa rilevazione, pressoché in ogni comparto della società si ebbero censimenti settoriali preliminari dei perseguitandi, specialmente nei comparti concernenti il lavoro e i beni.

Di quelli attuati nel 1937, sono oggi documentati i seguenti:

1.b.2 Nel giugno 1937 il preside della provincia di Trieste fece pervenire a Mussolini una lunga lista delle posizioni politiche, amministrative, economiche e sociali tenute a Trieste da ebrei, da lui identificati “sulla base della razza e non della religione professata”[9].

1.b.3 Nel novembre 1937 una banca “di interesse nazionale” attuò una rilevazione dei propri dipendenti apparentemente ebrei[10].

Dei censimenti, assai più numerosi, effettuati nel corso del 1938, fino all’emanazione delle norme persecutorie, si possono menzionare i seguenti a mo’ di esempio:

1.b.4 Il 19 gennaio 1938 il ministro dell’Educazione nazionale chiese ai rettori delle università di censire gli “studenti ebrei di nazionalità straniera”; il 14 febbraio l’indagine viene ampliata a quelli italiani e ai professori[11].

1.b.5 Il 14, 15 e 17 febbraio 1938 il Ministero dell’interno dispose la rilevazione dei dipendenti “di religione israelita” nei vari uffici dipendenti e in particolare nelle questure[12].

1.b.6 Nel febbraio 1938 venne eseguita per Mussolini la rilevazione (parrebbe su base onomastica) degli ebrei con il grado di ufficiale superiore[13].

1.b.7 In aprile o nelle settimane seguenti venne compilato presso il Ministero della cultura popolare l’elenco degli iscritti all’albo dei giornalisti “aventi nome ebraico”[14].

1.b.8 Il 19 agosto 1938 lo stesso ministero chiese urgentemente ai principali prefetti “un primo elenco informativo dettagliato sugli elementi ebraici che fanno comunque parte di aziende giornalistiche, editoriali, teatrali, cinematografiche, turistiche e di quegli altri organi che hanno comunque relazione con la stampa e propaganda”[15].

1.b.9 Il 22 settembre 1938 la Confederazione fascista dei lavoratori delle aziende del credito e della assicurazione chiese ai segretari delle Unioni interprovinciali della stessa di censire i dipendenti “di razza ebraica” di dette aziende[16].

I primi censimenti dei beni sembrano essere stati disposti all’inizio dell’autunno del 1938, ossia quando ormai l’opera di censimento delle persone (cioè dei possessori dei beni) era giunta a uno stadio relativamente avanzato. Quelli precedenti il varo della normativa persecutoria attualmente noti sono i seguenti:

1.b.10 Il 21 settembre 1938 il capo dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, confermando le disposizioni date il 19 settembre 1938 quale governatore della Banca d’Italia affinché gli istituti di credito non rispondessero ad alcuna richiesta della polizia tributaria o di altre autorità intorno all’esistenza e ai movimenti dei depositi di “ebrei”[17], chiese per lo meno all’amministratore delegato della Banca commerciale italiana e al provveditore del Monte dei paschi di Siena notizie sull’entità dei depositi di “ebrei” e se questi avessero ritirato o stessero ritirando importi superiori al mezzo milione di lire[18].

La Banca commerciale italiana riferì che i depositi “presumibilmente di pertinenza di clientela ebraica” consistevano all’inizio di ottobre in circa L. 56.600.00 in denaro e circa L. 79.200.000 in titoli, dopo che da agosto erano stati ritirati circa L. 16.500.000 in denaro e circa L. 58.600.00 in titoli (in particolare 51 depositanti avevano effettuato prelievi superiori a L. 250.000), aggiungendo tuttavia che l’ultima settimana di settembre “tutta la nostra clientela, senza distinzione di razza, effettuò dei ritiri di particolare entità”[19]. Il Monte dei paschi di Siena riferì che i depositi in questione consistevano in L. 11.085.617,46 in contanti e L. 12.923.500 in titoli, precisando che si trattava comunque di dati “approssimativi” e aggiungendo che non si erano verificati ritiri superiori all’importo indicato[20].

1.b.11 Il 22 ottobre 1938 il ministro delle Finanze, aderendo a una richiesta della Commissione per lo studio dei problemi della razza della Reale Accademia d’Italia, chiese ai prefetti di tutte o quasi le città sede di una Comunità israelitica di comunicargli quali contribuenti censiti il 22 agosto 1938 fossero stati tenuti nel 1937 a pagare l’imposta sul valore locativo, precisando per ciascuno il reddito accertato e l’importo della tassa, e indicando il totale di questi valori per gli altri contribuenti (l’imposta sul valore locativo veniva pagata da chiunque –proprietario o affittuario- tenesse a propria disposizione un immobile il cui reddito superasse una certa soglia). Quattro mesi dopo alla Commissione erano pervenuti i dati di 14 città su 25 (comprese Torino e Trieste, aventi popolazione israelitica medio-grande, ma escluse Roma e Milano, aventi le maggiori popolazioni israelitiche, pari a oltre un terzo del totale). In dette città erano stati individuati 5.122 contribuenti “ebrei” (ovvero: persone classificate “di razza ebraica” o anche solo incluse nel censimento; vedasi 1.b.1, 2.a.1), aventi un reddito complessivo di lire 22.099.000 e un reddito medio di lire 4.315[21].

1.c. Licenziamenti

I licenziamenti generalizzati dei dipendenti “ebrei” da un determinato ambito di lavoro vennero disposti dalla normativa persecutoria. Ad oggi è documentato solo un provvedimento di tal tipo disposto prima del varo di quest’ultima:

1.c.1 In data precedente al 17 agosto 1938 il ministro degli Affari esteri dispose il licenziamento di “tutti gli impiegati locali all’estero ed avventizi all’interno che risultassero non appartenere alla razza italiana”[22].

1.c.2 Si può aggiungere che il 5 settembre 1938 venne annunciata la “sospensione dal servizio” dei 19 dipendenti ebrei del Ministero dell’interno; in effetti tale provvedimento era cosa ben distinta da quello di “dispensa dal servizio”, ossia dal licenziamento, tuttavia ne costituiva una chiara anticipazione[23].

1.d. Cessioni di beni

Le prime minacce persecutorie o il desiderio di prevenirle determinarono un numero imprecisato di vendite, svendite, ristrutturazioni del patrimonio per renderlo più facilmente esportabile o per porlo per quanto possibile al riparo.

1.d.1 Quanto al suo deprezzamento complessivo, si può menzionare la segnalazione inviata il 2 agosto 1938 dal capo della polizia ai prefetti: “Gli ebrei starebbero procedendo […] al disinvestimento dei loro beni non strettamente liquidi, reinvestendo il ricavato particolarmente nell’acquisto di gioielli e anche di oro. […] Conseguentemente si sarebbe verificato […] un aumento del prezzo dei gioielli ed anche dell’oro, che, nel mercato clandestino, da lire 22 sarebbe salito a lire 26 al grammo. […] I citati disinvestimenti da parte degli ebrei sarebbero la causa principale dell’attuale depressione della Borsa”[24].

Un ebreo italiano, scrivendo nel settembre 1938 da Parigi al fratello in Palestina, così si pronunciava in merito a come “salvare il salvabile” del patrimonio dei genitori in Italia: “Per quel che riguarda i titoli di stato italiani […] io sono del parere che è nettamente preferibile l’esportazione di biglietti. La perdita sui titoli è certamente molto più forte. […] Anche tu dovresti consigliare di liquidare (anche con le inevitabili perdite) gli immobili, e subito”[25].

1.d.2 Quanto alle cessioni di ditte e beni immobili, è documentato che tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre 1938 esse furono numerose in tutto il paese: ad esempio gli atti di compravendita, donazione e divisione, stipulati prima del 19 novembre 1938 (vedi 2.d.2), e registrati dalle Conservatorie delle ipoteche o dagli Uffici del registro dal 17 novembre 1938[26] (la registrazione dell’atto poteva avvenire anche vari giorni dopo la sua firma) risultarono essere una decina tanto a Bologna, che a Ferrara e a Modena, e in misura quattro volte superiore a Torino[27].

Per le cessioni di aziende, vi è notizia di un caso di svendita per molti aspetti clamoroso e di alcuni altri casi per i quali però non sono disponibili particolari. Nell’estate-autunno 1938 si svolse una complessa trattativa che portò al passaggio di proprietà del quotidiano triestino “Il piccolo”; il venditore, che in luglio 1938 valutava il quotidiano anche 15 milioni di lire, lo cedette in novembre per 2 milioni e alcune compensazioni[28]. Nei mesi che precedettero l’emanazione delle leggi persecutorie o contemporaneamente al varo delle prime di queste, vennero tra l’altro ceduti uno dei più importanti circuiti di sale cinematografiche e una quota imprecisata della più importante casa di distribuzione di libri e giornali[29].

1.e. Indagini di polizia e doganali

In diretto riferimento all’eventualità che i perseguitandi emigrassero con i propri capitali resi liquidi, o più semplicemente li trasferissero in paesi non persecutori, fu aumentata la sorveglianza su di essi, specie quella confinaria:

1.e.1 Il 2 agosto 1938 il capo della polizia sollecitò i prefetti, “al fine di reprimere i tentativi di esportazione clandestina all’estero dei preziosi e dell’oro, [a] disporre previ accordi con la Polizia Tributaria e con le Autorità Doganali cautissime misure di vigilanza sugli elementi israeliti, facendo fare tempestivamente agli Uffici di frontiera, ove la vigilanza dovrà essere molto oculata, le segnalazioni che si reputino necessarie”[30].

2.  La normativa persecutoria del 1938-1943 concernente attività lavorative, imprese, beni

2.a. Censimenti delle persone e delle proprietà

2.a.1 L’attuazione generale della legislazione antiebraica fu basata sulle autodichiarazioni di “appartenenza alla razza ebraica”, effettuate presso i comuni di residenza dagli stessi perseguitati entro novanta giorni dal 4 dicembre 1938, pena l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a lire tremila, e basate sulla classificazione di “ebreo” stabilita dalla legge[31]. Non sono noti i dati riepilogativi di tali operazioni. Sulla base della definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica”, di alcuni dati parziali del censimento dell’agosto 1938 (vedi 1.b.1), e senza tenere conto di emigrazioni e immigrazioni, si può ipotizzare che siano state assoggettate alla legislazione razzista antiebraica circa 51.100 persone, 4.500 delle quali non avevano religione o identità ebraica. Con riferimento a quanto illustrato qui di seguito, si può precisare che, di questi perseguitati, forse 11.200 (compresi forse 1.400 italiani cui venne revocata la cittadinanza) erano stranieri o apolidi e risultarono suddivisi in 3.100 ammessi a risiedere e 8.100 non ammessi. Inoltre 6.500 di essi ottennero il provvedimento di “discriminazione”, comportante l’esenzione da un ristretto numero di norme persecutorie[32].

Parallelamente, vennero attuati censimenti specifici per ciascun ambito della normativa persecutoria. Di questi, si possono menzionare i seguenti a mo’ di esempio:

2.a.2 Il 12 settembre 1938 il Ministero dell’interno dispose la rilevazione degli ebrei stranieri[33].

2.a.3 Il 12 dicembre 1938 l’Ufficio compartimentale dei monopoli di Stato di Como chiese agli Uffici vendita di Como, Novara e Varese di accertare e comunicargli lo “stato razziale” sia dei commessi e degli operai dipendenti da detti Uffici sia degli “appaltatori, concessionari, gerenti provvisori, commessi, rappresentanti e coadiutori delle rivendite dipendenti”[34].

Relativamente ai beni, oltre ai censimenti dei depositi bancari (vedi 2.e), vennero attuate due specifiche rilevazioni connesse all’applicazione dei limiti di proprietà stabiliti dai rdl 1728/1938 e 126/1939[35]. Più precisamente, il secondo decreto dispose e regolò le seguenti due rilevazioni:

2.a.4 I cittadini italiani “di razza ebraica” non “discriminati” (non quindi le società e le altre persone giuridiche) dovettero autodenunciare entro novanta giorni dall’11 febbraio 1939 (pena l’ammenda da lire cinquecento a lire diecimila) i fabbricati urbani e i terreni dei quali essi erano, in Italia e a tale data, possessori, anche in comproprietà. Il 22 maggio 1940 l’obbligo dell’autodenuncia venne esteso agli ebrei apolidi residenti in Italia[36].

I dati delle autodenunce iniziali e degli aggiornamenti successivi vennero raccolti in un registro presso ciascun Ufficio distrettuale delle imposte dirette (possessori con domicilio fiscale nella circoscrizione)[37]; inoltre essi vennero raccolti in uno schedario presso ciascun Ufficio tecnico erariale (possessori con domicilio fiscale nella circoscrizione), uno schedario in ciascuna provincia (possessori con diritti immobiliari nella provincia), uno schedario presso il Ministero delle finanze (collegato a quelli degli Uffici tecnici erariali)[38].

Il 24 giugno 1939 il ministro delle Finanze quantificò le autodenunce pervenute agli Uffici distrettuali delle imposte dirette in 7.060, per un totale complessivo autodichiarato (ma valutato “di larga approssimazione” dal ministro delle Finanze) di L. 8.023.140 di estimo dei terreni e L. 66.609.144 di reddito imponibile dei fabbricati[39]. Nel febbraio 1940 le autodenunce risultarono essere 7.373[40], testimoniando così un tasso di crescita assai ridotto (e in parte dovuto al verificarsi di eredità ecc.). Con riferimento ai limiti di possesso posti dal rdl 1728/1938, il ministro nel giugno 1939 aggiunse che (sempre in “larga approssimazione”) il totale delle quote di proprietà di terreni “eccedenti” lire cinquemila era pari a L. 4.210.556 e che il totale delle quote di proprietà di fabbricati “eccedenti” lire ventimila era pari a L. 25.027.399[41]. I valori provinciali più elevati erano registrati a Padova per i terreni (L. 1.306.599 in totale, di cui L. 1.026.559 di “eccedenze”) e a Roma per gli immobili (L. 18.960.168 in totale, di cui L. 8.876.100 di “eccedenze”)[42].

Applicando i moltiplicatori indicati dal rdl 126/1939 per determinare il prezzo di esproprio delle “quote eccedenti” (80 per i terreni e 20 per i fabbricati)[43] i totali nazionali suddetti corrispondevano a L. 641.848.000 complessive e L. 336.844.480 “eccedenti” per i terreni e a L. 1.332.182.000 complessive e L. 500.547.980 “eccedenti” per i fabbricati.

Nella zona di Ferrara, il valore (estimo e imponibile) delle proprietà immobiliari degli ebrei costituiva oltre il 3% del totale provinciale[44]; a Torino gli ebrei proprietari di immobili erano meno del 2% di tutti i proprietari della città[45].

2.a.5 I cittadini italiani “di razza ebraica” non “discriminati” dovettero autodenunciare entro novanta giorni dall’11 febbraio 1939 (pena l’ammenda da lire cinquecento a lire diecimila) le aziende industriali e commerciali (ad esclusione di quelle azionarie e artigiane) delle quali essi erano, in Italia e a tale data, possessori, anche in comproprietà, o “gestori a qualunque titolo”, o che appartenevano a società non azionarie in cui essi erano soci a responsabilità illimitata. Il 30 maggio 1940 l’obbligo dell’autodenuncia venne esteso agli ebrei apolidi residenti in Italia[46]. Le aziende vennero distinte in tre categorie: a aziende ufficialmente dichiarate “interessanti la difesa della nazione”; b aziende con almeno 100 dipendenti (per il proprietario di più aziende il limite concerneva il totale di esse) alla data dell’11 febbraio 1939 (o, se superiore, e secondo determinate condizioni, nel 1938); c altre aziende.

I dati delle autodenunce iniziali e degli aggiornamenti successivi vennero raccolti in appositi elenchi presso ciascun Consiglio provinciale delle corporazioni (aziende con sede nella provincia); gli elenchi delle aziende a e b vennero inoltre trasmessi ai ministeri delle Corporazioni e delle Finanze[47]. Gli elenchi provinciali delle autodenunce iniziali (comprendenti quindi persone che ottennero la “discriminazione” in data successiva) vennero pubblicati sulla “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia” nel secondo semestre del 1939 (in rari casi successivamente), per un totale generale (da considerarsi provvisorio) di 1 azienda a[48], 19 aziende b[49], oltre 3.100 aziende c[50].

Questi dati conobbero continue variazioni in calo (concessioni di “discriminazione”, accoglimento di ricorsi, qualche trasformazione in anonima, ma soprattutto chiusure o cessioni ad “ariani”) e in aumento (denunce tardive e qualche nuova apertura). Per quanto riguarda le aziende delle prime due categorie, l’unica a e varie quote proprietarie di quelle b vennero cancellate nel corso dei mesi successivi, per lo più a seguito dell’ottenimento della “discriminazione”[51]; così ben presto la categoria a risultò vuota e quella b risultò comprendere 11 aziende possedute completamente (9) o in parte (2) da “appartenenti alla razza ebraica” (non è noto quanti proprietari avessero ottenuto la “discriminazione” o provveduto a donare, a trasformare, a cedere o a liquidare l’azienda prima della compilazione degli elenchi; né è noto se il dato numerico conclusivo testimoni una scarsa propensione degli ebrei al possesso di aziende di tal genere, o, ancora, sia conseguenza del fatto che esse all’epoca fossero di norma costituite quali società azionarie).

Riguardo alla quantificazione delle aziende escluse dalla rilevazione, si può al momento solo segnalare che il Consiglio provinciale delle corporazioni di Bologna accertò la presenza di 51 ditte di ebrei italiani non “discriminati” -e quindi da classificare c- e di almeno 7 ditte di ebrei italiani “discriminati”, almeno 5 ditte recentemente cessate di ebrei italiani, almeno 9 ditte di ebrei stranieri[52].

Delle 11 aziende b rimaste, 8 erano del comparto tessile[53]. Le 1.387 aziende c censite nel febbraio 1939 in provincia di Roma (quella che ne contava il numero maggiore) erano per il 46 per cento negozi, per il 40,2 per cento ambulanti con o senza posto fisso, per il 5,7 per cento uffici o agenzie, per il 3,9 magazzini all’ingrosso o depositi, per il 3,2 per cento industrie, ecc.; di tutte esse, oltre il 40 per cento operava nel settore dell’abbigliamento e delle drapperie, e oltre il 22 per cento (per la precisione, il 55,6 per cento degli ambulanti) vendeva ricordi e chincaglierie (tutte le percentuali sono calcolate sulle 1578 “unità locali”, o sedi, delle aziende censite)[54]. Di 173 delle aziende c della provincia di Firenze, il 44 per cento era costituito negozi, il 22,6 per cento da ambulanti e il 10,7 per cento da rappresentanze; il 75,7 dei primi, il 94,4 per cento dei secondi e il 35,3 per cento dei terzi operava nel settore dell’abbigliamento[55].

A Trieste, su un totale di 13.340 aziende esistenti nel 1934, le aziende c accertate nel 1939 erano 169 o 172, ossia l’1,3 per cento[56]. A Roma, i negozi e ambulanti sopraindicati costituivano il 6 per cento del totale generale provinciale[57].

2.b. Licenziamenti e divieti concernenti il lavoro dipendente e autonomo e le libere professioni

2.b.1 Nel settembre 1938 fu disposta la scadenza al 12 marzo 1939 dei permessi di residenza rilasciati a stranieri “di razza ebraica” giunti in Italia, in Libia o nel Dodecanneso dopo il 1° gennaio 1919, nonché il divieto di nuovi rilasci di tali permessi; la disposizione concerneva anche coloro che, avendo la stessa anzianità di residenza, sempre nel settembre 1938 erano stati privati della cittadinanza italiana ricevuta “per concessione” (ossia, non “per diritto”) dopo il 1° gennaio 1919. Nel novembre 1938 furono esentate le persone coniugate con cittadini italiani e quelle non più in età lavorativa[58]. La revoca del permesso di residenza (ossia l’espulsione) comportava la revoca del permesso di lavoro, fosse esso dipendente (non presso lo Stato) o autonomo. In linea generale l’ebreo straniero continuò a lavorare fino al giorno di emigrazione[59], ma per i professionisti iscritti ad albi del settore sanitario, ossia per medici, veterinari, farmacisti e ostetriche, il 17 settembre 1938 il ministero dell’Interno dispose la cancellazione urgente dall’albo professionale[60]. Chi rimase in Italia nonostante la revoca del permesso di residenza, non ebbe più il permesso di lavorare.

Dei circa 8.100 ebrei di tutte le età non ammessi a risiedere (vedi 2.a.1), circa 4.000 lasciarono la penisola entro il 12 marzo 1939 (nei mesi successivi vi furono altre espulsioni, controbilanciate da nuovi arrivi)[61]; una parte consistente di essi aveva –e quindi perse- una attività lavorativa. Per coloro i quali non poterono ottemperare all’obbligo di uscita dal paese (occorreva infatti un altro paese che li accogliesse e il denaro per pagare il viaggio), “dopo tale data non vi era altra possibilità di guadagnarsi il pane se non con un lavoro clandestino. […] A Milano il numero delle persone assistite costantemente nel marzo 1938 ancora non raggiungeva il 20% degli emigranti che vivevano in quella città. Dopo l’entrata in vigore del divieto di lavoro l’impoverimento crebbe rapidamente e raggiunse dimensioni spaventose. Le persone bisognose di assistenza erano ora la grande maggioranza. Nel novembre 1939 erano 1.434 a Milano e ben 3.000 in tutta Italia, su almeno 4.000”[62]. Per quanto concerne i professionisti, è documentato che 2 medici vennero cancellati dall’albo di Gorizia[63] e perlomeno 4 da quello di Bologna[64].

Nel luglio 1939 il prefetto di Bolzano decretò l’allontanamento immediato dalla provincia (e la conseguente perdita del lavoro) di tutti gli ebrei stranieri, senza riguardo alle esenzioni legislative[65].

2.b.2 In novembre 1938 fu disposto il licenziamento entro il 4 marzo 1939 (e il blocco definitivo di nuove assunzioni) di tutti i dipendenti pubblici “di razza ebraica”, ossia degli impiegati dello Stato, delle province, dei comuni, delle aziende municipalizzate, ecc. Per gli insegnanti e gli altri dipendenti scolastici la data di cessazione dell’impiego fu il 14 dicembre 1938; per i militari in servizio permanente fu il 1° gennaio 1939; in vari casi il licenziamento fu preceduto dalla misura provvisoria della “sospensione dal servizio” (per gli insegnanti dal 16 ottobre 1938). Il licenziato ebbe diritto alla pensione o all’indennità di licenziamento[66]. Gli insegnanti espulsi potevano essere impiegati nelle sezioni elementari per ebrei eventualmente istituite dallo Stato e nelle scuole elementari e medie eventualmente istituite dalle Comunità israelitiche[67].

I professori universitari ordinari e straordinari espulsi furono 96, pari al 7 per cento della categoria[68]; i dipendenti di ruolo espulsi dalle biblioteche governative e dalle soprintendenze bibliografiche furono 7 su 355[69]; i professori delle scuole medie e superiori espulsi furono 279[70]; gli ufficiali in servizio (dai sottotenenti ai generali e ammiragli di divisione) espulsi dall’Esercito e dalla Marina furono rispettivamente 81 e 27[71]; i dipendenti del ministero dell’Africa italiana espulsi furono 33 (un terzo di essi era impiegato come traduttore o interprete e aveva nome apparentemente libico, altri avevano le qualifiche di applicato, archivista, ragioniere, agronomo, medico, direttore di governo di 2° classe, ecc.)[72].

2.b.3 In novembre 1938 fu inoltre disposto il licenziamento entro il 4 marzo 1939 (e il blocco definitivo di nuove assunzioni) di tutti i dipendenti “di razza ebraica” impiegati in enti e imprese parastatali o privati ma controllati o sostenuti dallo Stato (Partito nazionale fascista, associazioni sindacali di qualsiasi tipo, enti parastatali, enti o istituti di diritto pubblico vigilati dallo Stato o destinatari di contributi continuativi da parte di esso, enti dipendenti dai precedenti, società industriali o commerciali con partecipazione azionaria dello Stato pari ad almeno la metà del capitale, ecc. -compresi alcuni istituti bancari quali quelli di diritto pubblico e le Casse di risparmio-), nonché di quelli impiegati in scuole private, banche “di interesse nazionale” e (ma limitatamente ai non “discriminati” –peraltro nel marzo 1941 ai “discriminati” venne precluso “ogni incarico che li metta a contatto con il pubblico”-[73]), imprese private di assicurazione. Il licenziato ebbe diritto alla pensione o all’indennità di licenziamento[74]. Il 10 novembre (giorno dell’approvazione del rdl 1728/1938 da parte del Consiglio dei ministri) l’Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito ordinò per lo meno ad una banca “di interesse nazionale” e a tutte le Casse di risparmio l’immediata messa “in congedo” del personale da licenziare[75]. Gli insegnanti espulsi potevano essere impiegati nelle sezioni elementari per ebrei eventualmente istituite dallo Stato e nelle scuole elementari e medie eventualmente istituite dalle Comunità israelitiche[76]. Il ministro delle Comunicazioni stabilì che la normativa doveva essere applicata dalla generalità delle Società di navigazione, con eccezione per quelle di “preminente interesse nazionale” di qualche dipendente “di bassa forza […] per le speciali esigenze dei passeggeri di razza ebraica” in alcune linee come quella per la Palestina (ossia: i cuochi incaricati della cucina tradizionale ebraica) e per quelle “sovvenzionate minori” del personale eventualmente addetto ai servizi “indispensabili” di collegamento con le isole minori[77]. Nel luglio 1941 un decreto stabilì che il personale dipendente dal concessionario del servizio telefonico o telegrafico pubblico doveva essere “di razza ariana”[78]; ma la norma pare limitarsi a esplicitare quanto stabilito in termini generali dal rdl 1728/1938. A metà 1939 fu precisato che doveva essere licenziato “il personale di razza ebraica” dipendente dalle esattorie e dalle ricevitorie delle imposte[79]. Perlomeno dal 1942 il divieto di insegnamento privato venne ampliato alle lezioni private in genere[80].

Una società di navigazione triestina licenziò 9 dipendenti; altre due società presero immediati provvedimenti provvisori nei confronti di 11 dipendenti[81]. Le Assicurazioni generali e la Ras allontanarono circa 100 dirigenti e funzionari (ma alcuni di essi potrebbero essere stati “discriminati” e quindi avere mantenuto o riottenuto il posto)[82]. Altre sedici aziende assicurative (esclusa, tra l’altro, l’INA) licenziarono 53 dipendenti[83]. Degli istituti di credito interessati dal decreto legge, i tre “di interesse nazionale” (Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma), allontanarono 137 dipendenti, le Casse di risparmio 26, gli altri istituti di credito di diritto pubblico 55[84] (si hanno notizie di licenziamenti anche dagli istituti di credito non di diritto pubblico).

2.b.4 In novembre 1938 fu disposto che i cittadini italiani “di razza ebraica” non “discriminati” non potevano essere dirigenti di aziende situate in Italia interessanti la difesa della nazione o con almeno 100 dipendenti (vedi 2.a.5); in febbraio 1939 fu precisato che la cessazione doveva avvenire entro l’11 maggio 1939[85].

2.b.5 In novembre 1938 fu disposto che i cittadini italiani “di razza ebraica” non “discriminati” non potevano essere amministratori o sindaci di aziende situate in Italia interessanti la difesa della nazione o con almeno 100 dipendenti (vedi 2.a.5); in febbraio 1939 fu precisato che la cessazione doveva avvenire entro l’11 maggio 1939[86].

2.b.6 In ottobre-novembre 1938, 35 agenti di cambio presso le borse di Firenze, Genova, Napoli, Roma, Torino e Milano –apparentemente “di razza ebraica”-, tutti i loro rappresentanti (36, per circa un terzo apparentemente “di razza ebraica”) e almeno 3 rappresentanti “ebrei” di altri agenti si dimisero[87]. Nel giugno 1939 venne deciso di “impedire in modo assoluto agli ebrei” l’attività di commissionario di borsa[88].

2.b.7 In agosto 1939 ai cittadini italiani “di razza ebraica” fu vietato l’esercizio della professione di notaio. Il dispensato ebbe diritto alla pensione o all’indennità di licenziamento[89]. Un elenco non definitivo di notai “di razza ebraica” conteneva 14 nomi[90].

2.b.8 In agosto 1939 ai cittadini italiani “di razza ebraica” fu vietato di essere iscritti nei ruoli dei revisori dei conti, e in quelli dei periti e degli esperti[91]. I revisori dei conti cancellati dagli elenchi furono 44[92].

2.b.9 In agosto 1939 ai cittadini italiani “di razza ebraica” non “discriminati” fu vietata la professione di giornalista. Il dispensato ebbe diritto alla pensione o all’indennità di licenziamento[93].

2.b.10 In agosto 1939 fu disposto che entro il 1° marzo 1940 i cittadini italiani “di razza ebraica” esercenti la professione di medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale (nonché, dal marzo 1942, attuario) dovevano essere: I) se non “discriminati”(e purché “di specchiata condotta morale” e non noti quali antifascisti), iscritti in elenchi “speciali” e abilitati a esercitare la professione “esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica”, tranne “i casi di comprovata necessità ed urgenza” (stesso trattamento fu fatto agli stranieri ammessi a risiedere) ; II) se “discriminati”, iscritti in elenchi “aggiunti”; tutti furono esclusi dalla possibilità di esercitare per conto di enti pubblici e associazioni o di svolgere comunque funzioni di pubblico ufficiale[94]. Riguardo a questa normativa, va considerato che, ovviamente, l’attività dei primi dipendeva dalle necessità e dalle possibilità economiche della loro clientela, e quella dei secondi dalla disponibilità dei “non appartenenti alla razza ebraica” ad affidare loro la propria casa o la propria causa.

A Torino, tra il settembre 1938 e il febbraio 1940, 15 avvocati si dimisero e 25 avvocati e praticanti procuratori vennero cancellati dall’albo ordinario; 10 di essi vennero iscritti nell’elenco “aggiunto”[95]. A Roma 132 medici vennero cancellati dall’albo; 21 di essi vennero iscritti nell’elenco “aggiunto”[96].

2.b.11 In dicembre 1939 alle persone “di razza ebraica” fu vietato l’impiego di fattorino d’albergo, nel settembre 1940 quello negli uffici di propaganda alberghiera, successivamente qualsiasi impiego negli alberghi[97].

2.b.12 In giugno 1940 alle persone “di razza ebraica” fu vietata “qualsiasi attività nel settore dello spettacolo”, da quella di librettista a quella di pulizia e custodia[98] (per il precedente licenziamento dei dipendenti da enti pubblici o sostenuti dallo Stato, vedi 2.b.2; 2.b.3); nel maggio 1942 questa disposizione fu formalizzata e ampliata ai dischi fonografici e ai film di importazione[99].

2.b.13 In maggio 1940 alle persone “di razza ebraica” fu vietato l’impiego di lavorante di oggetti preziosi[100] e nel novembre 1941 quello di commesso di oreficeria[101], nel gennaio 1941 quello di autista di noleggi pubblici[102], nel febbraio 1941 quello di portiere, tranne che per gli immobili abitati solo da ebrei[103].

2.b.14 Tra il febbraio e il settembre 1942 fu vietato qualsiasi impiego di persone “di razza ebraica” nelle aziende ausiliarie alla produzione bellica, ossia in imprese quali la Fiat, la Compagnia generale di elettricità, la Montedison ecc., nonché nei cantieri navali. Di questa vicenda può essere delineata la compartecipazione del processo decisionale: il 28 gennaio 1942 il prefetto di Genova chiese alla Direzione generale della pubblica sicurezza se “possa essere consentito” di assumere operai “di razza ebraica” negli stabilimenti ausiliari e nei cantieri navali; il 5 febbraio la suddetta Direzione sottopose la questione alla Direzione generale per la demografia e la razza; il 12 febbraio questa rispose che “non possono essere assunti”; il 2 marzo la Direzione generale della pubblica sicurezza comunicò il divieto al prefetto di Genova; il 29 marzo il segretario del Partito nazionale fascista, prendendo spunto da una vicenda romana, segnalò al sottosegretario all’Interno “l’opportunità di provvedimenti cautelativi” nei confronti di tutti i dipendenti “di razza ebraica” degli stabilimenti ausiliari; il 30 aprile la Divisione polizia politica della Direzione generale della pubblica sicurezza riassunse lo stato della questione, proponendo al sottosegretario all’Interno di sentire il parere del sottosegretario per le Fabbricazioni di guerra, anche al fine di “esten[dere] a tutte le provincie” il divieto stabilito per Genova; il 31 maggio questi rispose di aver disposto per gli stabilimenti ausiliari il divieto di nuove assunzioni di dipendenti ebrei e il licenziamento dei già assunti entro il 31 luglio; il 19 giugno il Ministero dell’interno comunicò la disposizione a tutti i prefetti; il 13 luglio il prefetto di Genova chiese alla Direzione generale della pubblica sicurezza se i nuovi divieti concernessero anche i cantieri navali, per i quali “finora risulta soltanto il divieto per gli operai”; il 18 settembre questa sottopose la questione alla Direzione generale per la demografia e la razza; il 25 settembre quest’ultima rispose che “dagli stabilimenti ausiliari, quindi anche dai cantieri navali, debbono essere estromessi gli ebrei, anche se discriminati, sia che si tratti di dirigenti, di tecnici, di impiegati o di operai”; il 7 ottobre la Direzione generale della pubblica sicurezza comunicò il divieto al prefetto di Genova[104].

2.b.15 In febbraio 1942 aziende e uffici pubblici di collocamento vennero invitati a “dare la preferenza” ai lavoratori di “razza ariana” in caso di “riduzione del lavoro” o di “avviamento al lavoro”[105]. Precedentemente al febbraio 1940 le persone “di razza ebraica” erano state escluse dalle facilitazioni al collocamento previste per i minorati di guerra[106].

2.b.16 Ai divieti disposti centralmente si aggiunsero quelle emanati da autorità locali: nel maggio 1943 venne vietato agli “operai appartenenti alla razza ebraica […] il permesso di accedere nel porto di Livorno per motivi di lavoro”[107].

2.b.17 Agli allontanamenti dal lavoro determinati da divieti specifici vanno poi affiancate le perdite di impiego conseguenti ad altre misure, come quella dell’internamento dal giugno 1940 degli ebrei italiani antifascisti e degli ebrei stranieri e quella dell’assoggettazione al “lavoro precettato” dal maggio 1942[108].

2.b.18 Le attività lavorative fornitrici di reddito erano assai variegate, comprendendo ad esempio l’opera di redazione di testi scritti e musicali, dalla quale derivavano diritti economici d’autore. A questo riguardo, in agosto 1938 fu vietata l’adozione nelle scuole medie di libri di testo di autore o coautore “di razza ebraica”[109], divieto esteso in febbraio 1939 alle carte geografiche murali[110]. Le opere di autori ebrei vennero progressivamente escluse dai programmi dei teatri lirici e di prosa, dalle trasmissioni musicali della radio, dai cataloghi delle case discografiche, dalle sale cinematografiche[111], fino a essere bandite dall’intero settore dello spettacolo (vedi 2.b.12). Le case editrici cessarono pressoché del tutto di pubblicare nuove opere di autori ebrei tra la fine del 1938 e gli inizi del 1939, nel febbraio 1940 ritirarono quasi tutte quelle già in commercio[112].

L’elenco di autori scolastici vietati reso noto il 30 settembre conteneva 114 nomi[113].

2.b.19 L’elenco delle disposizioni legislative e amministrative non può restituire il quadro materiale della situazione complessiva. Un esempio (non sappiamo quanto rappresentativo) di esso emerge dalle risposte al censimento del personale dipendente “di razza ebraica” effettuato nel dicembre 1938 – gennaio 1939 dall’Unione fascista dei commercianti della provincia di Milano presso le ditte associate: queste segnalarono l’esistenza di 205 rapporti di lavoro, 21 dei quali erano corredati da annotazioni quali “è straniero e entro il 12 marzo lascerà la ditta e l’Italia”; “licenziato a norma delle recenti disposizioni in materia”; “sospeso in attesa di liquidazione”; “a fine corrente mese revocherò la concessione della suaccennata rappresentanza”; “dimissionario”[114].

2.c. Divieti e limitazioni concernenti le attività imprenditoriali

2.c.1 La revoca dei permessi di residenza alla grande maggioranza degli stranieri “di razza ebraica” (vedi 2.b.1) comportò per essi l’urgenza di liquidare le proprie attività imprenditoriali.

In provincia di Bolzano, in preparazione dell’allontanamento di tutti gli ebrei stranieri (vedi 2.b.1), il 9 giugno 1939 il prefetto dispose la revoca di “tutte le licenze commerciali” ad essi intestate[115].

2.c.2 Il giorno della pubblicazione sulla “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia” del rdl 1728/1938 (19 novembre 1938) e con riferimento all’articolo concernente i limiti di proprietà di aziende e beni immobili, il ministro di Grazia e giustizia ordinò ai notai di “astenersi fino nuova disposizione” dallo stipulare qualsiasi atto di acquisto o vendita delle suddette proprietà da parte di persone “di razza ebraica”[116]. Il rdl 126/1939 stabilì che, dall’11 febbraio 1939 e fino alla definitiva classificazione nelle categorie a, b e c delle aziende non azionarie e non artigiane possedute, anche in quota, da italiani “di razza ebraica” non “discriminati” –tali operazioni si conclusero nel secondo semestre del 1939 (vedi 2.a.5)-, detti proprietari o soci non potevano vendere né le aziende né le attrezzature di queste; era peraltro loro consentito donarle –entro sei mesi- a eventuali congiunti (coniuge o discendenti) non “di razza ebraica”[117].

2.c.3 In novembre 1938 fu stabilito e in febbraio 1939 fu regolamentato che gli italiani “di razza ebraica” non “discriminati” non potevano essere proprietari o soci a responsabilità illimitata, anche in quota, di aziende industriali o commerciali, non azionarie, rientranti nelle seguenti categorie: a, aziende ufficialmente dichiarate “interessanti la difesa della nazione”; b, aziende con almeno 100 dipendenti (per il proprietario di più aziende il limite concerneva il totale di esse) alla data dell’11 febbraio 1939 (o, se superiore, e secondo determinate condizioni, nel 1938) (vedi 2.a.5). Riguardo a queste aziende (escluse quindi quelle c), il rdl 126/1939 dispose quanto segue: I, Esse furono poste per sei mesi sotto la vigilanza di un commissario governativo, dotato di ampi poteri, compreso quello di assumerne la gestione diretta; durante tale periodo, i proprietari o soci potevano –previa autorizzazione ministeriale- procedere a vendite, totali o parziali, ad acquirenti non ebrei[118]. II, Terminato il semestre commissariale, quelle non vendute nel modo suddetto potevano o “essere rilevate da società anonime regolarmente costituite o da costituire”, con un corrispettivo determinato dal commissario e dal ministero (al proprietario era concesso di fare ricorso ad un collegio nel quale due dei tre membri erano nominati dal ministero e dall’acquirente), o essere poste in liquidazione a cura del locale Consiglio provinciale delle corporazioni[119]. III, Il corrispettivo della vendita o l’eventuale ricavo della liquidazione doveva essere investito in titoli nominativi di consolidato, ossia in titoli “non trasferibili, per atto tra vivi” salvo apposita autorizzazione ministeriale[120] (nei due casi noti, vennero acquistati titoli rispettivamente al 4 per cento e al 5 per cento)[121]. IV, Il procedimento veniva bloccato e annullato in caso di fallimento, ottenimento della “discriminazione”, perdita della cittadinanza italiana, trasferimento ereditario a persona non soggetta alla legge; qualora fosse già intervenuta la vendita o la liquidazione, i titoli dati in corrispettivo divenivano “trasferibili”[122]. Il 30 maggio 1940 la normativa venne estesa agli ebrei apolidi[123]. Relativamente alle facoltà riconosciute al proprietario, una sentenza postbellica del tribunale di Milano ha osservato che questi si è “trovato quasi nella stessa situazione in cui trovasi il fallito rispetto al curatore ed al giudice delegato e l’interdetto rispetto agli organi che esercitano la tutela”[124].

A seguito del censimento disposto nel febbraio 1939 risultò che nella penisola vi erano 11 aziende b possedute completamente (9) o in parte (due quote di un terzo di una ditta e una quota di un mezzo di un’altra ditta) da “appartenenti alla razza ebraica” (vedi 2.a.5). Per 1 azienda e per 2 quote sopravvenne la donazione al coniuge “ariano”[125]. Per le altre 8 aziende possedute completamente (tre delle quali appartenenti a uno stesso proprietario) e per la restante quota di un terzo si ebbe la liquidazione o la vendita forzosa[126].

A causa forse di una ambiguità della circolare del Ministero delle corporazioni sull’applicazione del rdl 126/1939, che, trattando della “liquidazione” delle “aziende rimanenti” (vedi qui sopra, 2.c.3/II), sembrava riferirsi anche alle aziende c, il Consiglio provinciale delle corporazioni di Bolzano decise il 12 aprile 1939 di avviare la liquidazione di 8 “ditte ebraiche-italiane” c[127].

2.c.4 Nel dicembre 1938 la circolare interpretativa del rdl 1728/1938 emanata dal ministero dell’Interno specificò che, come le amministrazioni pubbliche e assimilate non potevano avere dipendenti “di razza ebraica”(vedi 2.b.2, 2.b.3), così esse “non dovranno d’ora in poi affidare incarichi, appalti ecc. di alcuna specie a persone di tale razza: restano, pertanto, vietati […] gli appalti di pubblici servizi o di singole opere o forniture a persone di tale razza”[128]. Nel febbraio seguente il rdl 126/1939 autorizzò tutte dette amministrazioni a “revocare le concessioni [… e] risolvere d’autorità i contratti di appalto per lavori o forniture” conferite o stipulati con persone “di razza ebraica” o con società non azionarie e ditte da esse possedute o gestite (per queste, la revoca poteva a sua volta essere annullata qualora l’ebreo fosse stato sostituito con “persona non di razza ebraica e di gradimento dell’Amministrazione”)[129]. La norma del rdl 126/1939 concerneva solo i non “discriminati”; nel luglio seguente venne però deciso che “anche se discriminati gli ebrei non debbono continuare ad aver tale rapporto colle Amministrazioni dello Stato”[130].

Già il 25 marzo 1939 il Provveditorato generale dello Stato aveva invitato tutte le ditte fornitrici a trasmettere “la documentazione comprovante che i proprietari di codesta ditta nonché i gestori, amministratori, direttori, procuratori e rappresentanti sono di razza ariana”[131]. Nel frattempo le Ferrovie dello Stato avevano deciso di “in generale provved[ere] senz’altro alla revoca o risoluzione” dei contratti di fornitura in corso[132], eccettuati quelli “che, nell’interesse dell’Amministrazione, fossero da portare a termine”[133]. I Monopoli di Stato decisero il 27 maggio 1939 la risoluzione di almeno un contratto di appalto per la rivendita di generi di monopolio[134]. Al divieto di concessioni potrebbe ricondursi la cessazione forzata di attività di un rivenditore di giornali, proprietario di un chiosco ricoprente il suolo pubblico cittadino[135]. Per quanto concerne le forniture, si può menzionare a mo’ di esempio il “no” apposto nel maggio 1939 dal sottosegretario all’Interno su un appunto riportante la richiesta dell’Ospedale al mare di Venezia di continuare provvisoriamente ad acquistare caffè da una “ditta ebraica”, richiesta “motivata con l’assoluta necessità di non far mancare al detto Ospedale della [sic] derrata in parola, che, data la limitata disponibilità attuale, è impossibile acquistare da altre ditte”[136].

2.c.5 L’11 ottobre 1938 il ministro delle Corporazioni dispose il divieto di concessione di licenze di apertura di negozi ad ebrei (vedi anche 1.a.4) e la sospensione delle cessioni di licenze da titolari “di razza diversa” ad ebrei[137] (nell’aprile 1939 la fabbrica di cioccolato Perugina richiese alle autorità un’attestazione di “arianità” dei propri amministratori, “necessaria per ottenere la licenza di esercizio di un nostro negozio a Roma”)[138].

Il 17 febbraio 1940 lo stesso ministero comunicò che la Direzione generale per la demografia e la razza del ministero dell’Interno era competente in merito a ogni questione di “rilascio et voltura licenze esercizio commercio at cittadini italiani razza ebraica”[139] (l’11 marzo 1942 precisò che detta norma valeva anche per gli apolidi)[140]. I divieti oggi noti adottati dal Ministero delle corporazioni su indicazione della Direzione generale per la demografia e la razza sono quelli di raccolta di rottami metallici (pre-25 luglio 1940)[141]; di vendita libri scolastici (pre-27 ottobre 1940)[142]; di nuove iscrizioni di rappresentante (28 febbraio 1942)[143].

2.c.6 Il 15 aprile 1941 (dopo che nel giugno 1939 era stata disposta l’annotazione obbligatoria della “razza” negli “atti relativi a concessioni ed autorizzazioni di polizia”)[144] il Ministero dell’Interno decise la sospensione del rilascio di “nuove licenze di polizia” per esercizi commerciali a persone “di razza ebraica”[145].

2.c.7 Tra il 1939 e il 1943 il Ministero dell’Interno (Direzione generale della pubblica sicurezza, previo parere della Direzione generale per la demografia e la razza) vietò alle persone “di razza ebraica” la licenza di guida turistica, interprete (28 febbraio 1939)[146]; di collocatore di pubblicazioni (27 maggio 1939, solo agli ebrei non “discriminati”)[147]; di agenzia viaggi e turismo (14 luglio 1939)[148]; di affittacamere (24 luglio 1939, divieto esteso il 25 ottobre 1939 ai coniugi “di razza ariana”, esteso il 5 dicembre 1939 agli appartamenti ammobiliati, revocato il 16 aprile 1940 per le camere riservate ad ebrei)[149]; di confezionare e vendere uniformi militari (5 dicembre 1939 e 14 gennaio 1940, divieto esteso il 13 agosto 1940 ai coniugi “di razza ariana” subentranti)[150]; di esercizio di pensione (12 dicembre 1939, anche per i coniugi “di razza ariana”, escluse le pensioni riservate ad ebrei)[151]; di agenzia di brevetti (12 gennaio 1940)[152]; di agenzia di affari (12 gennaio 1940, divieto esteso nel luglio 1940 ai coniugi “di razza ariana” subentranti)[153]; di raccolta e vendita indumenti militari fuori uso (14 gennaio 1940, divieto esteso il 13 agosto 1940 ai congiunti “di razza ariana” subentranti)[154]; di commercio di preziosi (30 gennaio 1940, divieto esteso il 21 agosto 1940 ai coniugi “di razza ariana” subentranti)[155]; di esercizio bar e spacci di alcolici (29 febbraio 1940, divieto esteso il 30 luglio 1940 ai coniugi ariani subentranti)[156]; di commercio ambulante (30 luglio 1940, divieto esteso il 12 novembre 1941 ai coniugi “di razza ariana” subentranti)[157]; di commercio oggetti antichi e d’arte (13 settembre 1940)[158]; di esercizio arte fotografica (23 settembre 1940, anche per i coniugi “di razza ariana”)[159]; di commercio di articoli odontoiatrici montati in metalli preziosi (post-settembre 1940)[160]; di mediatorato (20 ottobre 1940)[161]; di scuole di ballo (20 gennaio 1941)[162]; di esercente servizi automobilistici pubblico da piazza o di noleggio da rimessa (31 gennaio 1941)[163]; di commercio libri usati (2 aprile 1941, anche per i coniugi “di razza ariana” subentranti)[164]; di amministratore di case e condomini (6 aprile 1941, escluse case e condomini di soli ebrei)[165]; di vendita apparecchi radio (12 aprile 1941)[166]; di vendita pelletterie in alberghi (4 maggio 1941, anche per i coniugi “di razza ariana”)[167]; di commercio stracci di lana e lana usata (10 luglio 1941)[168]; di attività tipografica (5 settembre 1941)[169]; di copisteria in negozi (22 ottobre 1941)[170]; di commercio oggetti usati (29 marzo 1942, anche per i coniugi “di razza ariana” subentranti)[171]; di commercio stracci non di lana (giugno 1942)[172]; di commercio di libri, articoli per bambini, carte da gioco, articoli ottici, oggetti sacri, cartoleria, raccolta di rifiuti, scuola di cucito[173].

Di tutte queste esclusioni, quella del commercio ambulante fu la più consistente in termini numerici. Essa riguardò in particolare Roma, ove nel 1939 erano state censite 635 aziende c di tale tipo[174], ovvero –come quantificò l’anno seguente l’Unione delle comunità israelitiche italiane- ove la misura colpiva “circa 900 capi-famiglia del popolino, tutti con moltissimi figli ed altre persone a carico” (e l’Unione aggiungeva che, “in mancanza di ogni possibilità di trovare una via di uscita a questa loro situazione, la disperazione potrebbe spingere parecchi a procacciarsi in modo illecito i mezzi della vita per loro e i loro congiunti”)[175].

2.c.8 Relativamente ai coniugi “di razza ariana”, nel novembre-dicembre 1942 fu deciso che in nessun caso essi potevano subentrare al coniuge “di razza ebraica” (modificando così varie disposizioni di 2.c.7) e che il coniuge “ariano” di un matrimonio misto poteva conservare o ottenere licenze solo se questi era il maschio della coppia[176].

2.c.9 Nell’aprile 1939 alle persone “di razza ebraica” fu vietato di svolgere l’attività di produttori autonomi d’assicurazione[177].

2.c.10 In novembre 1938 il Ministero per gli scambi e valute revocò le autorizzazioni di cambiavalute concesse ad ebrei e alle loro ditte[178]. In marzo 1940 la Direzione generale per la demografia e la razza, “presi gli ordini Superiori”, decise di “vietare l’esercizio del credito e di tutte le attività affini o comunque ad esso connesse” a tutte le persone “di razza ebraica”[179]. Al riguardo l’Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito segnalò che, ad indagini quasi concluse, risultavano esistere tre aziende di credito con titolari ebrei, aggiungendo di stare adoperandosi per “far assorbire le accennate aziende da altri istituti di credito [… o] conseguire una effettiva sostituzione dei titolari ebrei”[180].

2.c.11 Ai divieti disposti centralmente si aggiunsero quelli emanati da autorità locali. Nel luglio 1940 il commissariato di pubblica sicurezza di Abbazia comunicò alle mogli dei commercianti ebrei arrestati perché stranieri e ai commercianti ebrei non arrestati l’ordine del prefetto di Fiume di liquidare entro pochi giorni le loro aziende; il 6 ottobre questi decretò la loro chiusura “a tempo indeterminato”[181] (vedi anche il caso di Bolzano in 2.c.1).

2.c.12 Nel maggio 1941 il Ministero per gli scambi e le valute decise di “escludere dalla ripartizione dei contingenti d’importazione e da qualsiasi assegnazione all’importazione tutte le ditte, i cui titolari siano di razza ebraica”[182] e di “escludere dal rilascio delle licenze di esportazione tutte le ditte i cui titolari siano di razza ebraica”[183], compresi i “discriminati”[184].

Per quanto concerne i rifornimenti, un testimone ha così riepilogato: “Nel campo commerciale, quando fu stabilito il tesseramento, le ditte grossiste [di ebrei] nel campo dell’abbigliamento non furono più ammesse, a differenza delle altre, al libero rifornimento, ma dovettero rifornirsi con l’autorizzazione del Comcordit. […] In seguito, nel campo dell’abbigliamento, quando si parlò di ammassi, furono fatti elenchi speciali di grossisti, dai quali vennero escluse tutte le aziende ebraiche, comprese le discriminate, come pure quelle trasformatesi in anonime (questo provvedimento non ebbe però corso, perché al 25 luglio 1943 gli ammassi non erano ancora entrati in funzione)”[185]. Una lettera dell’aprile 1943 del Ministero delle corporazioni concernente quest’ultimo provvedimento specificava: “Invece, potrebbesi tollerare l’attività delle ditte dettaglianti ebraiche [tessili] per le quali tale carattere pubblico non si ravvisa”[186]. In data precedente all’aprile 1942 i commercianti ebrei, compresi i “discriminati”, vennero esclusi dalla “ripartizione dei contingenti di prodotti occorrenti per l’agricoltura”[187].

2.c.13 Alle persone “di razza ebraica” fu vietato di continuare a far parte di cooperative (settembre 1939; il capitale versato venne loro restituito)[188]. Esse inoltre non potevano fare pubblicità alle proprie ditte sulla stampa nazionale, ottenere permessi per ricerche minerarie, essere iscritte negli elenchi autorizzati di agenti marittimi raccomandatari, allevare colombi viaggiatori[189]. Dietro indicazione della Direzione generale per la demografia e la razza, il 19 ottobre 1940 il Ministero delle finanze comunicò il divieto per gli ebrei, anche se “discriminati”, di esercitare l’attività di spedizioniere doganale o qualsiasi altra attività doganale[190].

2.c.14 Alle cessazioni di attività determinate da divieti specifici vanno poi affiancate le cessazioni conseguenti ad altre misure, come quella dell’internamento dal giugno 1940 degli ebrei italiani antifascisti e degli ebrei stranieri e quella dell’assoggettazione al “lavoro precettato” dal maggio 1942[191].

2.c.15 Divieti e limitazioni ebbero per oggetto anche i crediti alle imprese, o determinarono decisioni in tal senso da parte degli istituti bancari (vedi anche 2.e).

Nell’aprile 1939 la Direzione generale per la demografia e la razza, dopo essersi pronunciata contro la concessione di contributi e sussidi del Ministero dell’agricoltura e delle foreste ad “agricoltori ebrei”, si espres se anche contro la concessione di prestiti del primo ai secondi[192].

Il 28 settembre 1938 l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito sollecitò per lo meno una banca “di interesse nazionale” a non concedere crediti ad ebrei “in tutti quei casi in cui il fine appaia speculativo”[193]; il 21 novembre 1938 l’amministratore delegato della stessa banca invitò i direttori di filiale a non concedere nuovi crediti a “ebrei stranieri destinati a lasciare il nostro paese” e a procedere al rientro di tutte le esposizioni di rischio in corso con essi, nonché, relativamente alla restante “clientela israelita”, ad “astenersi dall’entrare in nuove relazioni di rischio così allo scoperto come garantito […] fino a che non sia meglio precisabile la portata delle disposizioni economiche che la riguardano”[194]. Il 10 gennaio 1939 un’altra banca invitò le proprie dipendenze a segnalare sempre in “tutte le proposte o le comunicazioni di fido” la “razza del richiedente”, precisando dieci giorni dopo che potevano “essere omesse le indicazioni di ‘razza ariana’”[195]. Nell’estate del 1941 lo stesso Istituto di credito dispose la revoca di “tutti i fidi accordati a ditte ebraiche che svolgono la loro attività nel campo dell’esportazione” (vedi 2.c.12)[196].

2.c.16 L’emanazione delle norme persecutorie determinò la necessità di svendite commerciali (per emigrazione, ritiro della licenza, fallimento ecc.). In alcune occasioni i negozi rimasti attivi furono oggetto di vandalismi e saccheggi.

Per Trieste è stato ricordato che, in occasione delle svendite, “molta gente si rifornì nei negozi dei ‘giudei’, che in quel momento cessavano di essere ladri”[197]. Violenze e saccheggi a negozi di ebrei nella penisola sono attestati per lo meno a Ancona (maggio 1940), Pisa (ottobre 1942) e Trieste (maggio 1943)[198].

2.c.17 Per quanto concerne le aziende c, le chiusure (qualsiasi ne fosse il motivo) avvenute tra la fine del 1938 e l’estate 1943 furono presumibilmente pari o superiori a un terzo delle unità censite, giungendo talora a superare la metà di esse.

Delle 68 aziende c elencate ad Ancona, 29 vennero depennate tra l’ottobre 1939 e il settembre 1940 per donazione, vendita, cessazione dell’attività, trasformazione in società anonima[199]; tra quelle cessate, 8 erano ambulanti cui era stata ritirata la licenza il 17 agosto 1940[200]. Delle 56 aziende c elencate a Bologna, per lo meno 21 cessarono l’attività e per lo meno 3 vennero donate o trasformate in anonime prima del settembre 1943; inoltre, in quel quadriennio, per lo meno 7 richieste di nuova iscrizione nel registro delle ditte vennero respinte a seguito del “parere contrario del Ministero dell’Interno”[201]. A Cuneo, su 22 aziende identificate (14 delle quali censite), 12 furono oggetto tra il gennaio 1939 e il 1942 di donazione, cessione, chiusura per emigrazione o ritiro della licenza, un’altra dovette cessare di affiancare l’oreficeria all’orologeria[202]. Delle 11 ditte di italiani e 3 di apolidi esistenti a Gorizia, nel 1939-1940 cessarono o passarono di proprietà: un’oreficeria-orologeria, uno spaccio vini, un commercio vini all’ingrosso, un caffè, una ditta di costruzioni, un ambulante, una fabbrica di mobili; nel 1943 cessò una rappresentanza[203]. A Torino, dal 1938 al 1939 le aziende di ebrei calarono del 15 per cento e il complesso dei loro dipendenti del 21 per cento[204].

2.c.18 Le società azionarie e il capitale azionario non furono oggetto di specifiche disposizioni di ordine generale; ad eccezione del fatto che anche le prime, qualora fossero interessanti la difesa nazionale o avessero almeno 100 dipendenti, non potevano avere ebrei non “discriminati” quali amministratori, sindaci o dirigenti (vedi 2.b.5). Nel corso dell’elaborazione del rdl 1728/1938 era stato ipotizzato di limitare a un terzo la quota di capitale posseduta da ebrei e di limitare al 49 o al 33 per cento il voto complessivo di ebrei nelle assemblee; ma tali propositi vennero al dunque abbandonati[205].

Alcuni documenti tuttavia attestano lo svolgimento di indagini sulla “razza” degli azionisti e in qualche caso anche il varo di disposizioni (non pubbliche) di limitazione di attività. Quanto alle prime, è attualmente noto che il 19 dicembre 1938 l’Istituto nazionale per i cambi con l’estero segnalò al ministero dell’Interno (che autorizzò) di aver necessità di “accertare l’appartenenza o meno alla razza ebraica di nominativi facenti parte o comunque componenti talune Ditte e Società italiane”[206]; e che nel gennaio 1939 la Direzione generale per la demografia e la razza comunicò al Ministero delle corporazioni notizie sulla “razza” di amministratori, dirigenti e dipendenti di una ditta e sul capitale azionario di essa (pur essendo composto da “azioni per la maggior parte al portatore, […] vi sono fondate ragioni per ritenere che nella maggior parte esso sia nelle mani di persone di razza ariana”)[207]. Quanto alle seconde, è attualmente noto che nel febbraio 1939 il sottosegretario all’Interno decise che “le anonime che non hanno capitale completamente ariano debbono essere escluse dalle forniture dello Stato e specialmente dalle forniture del Ministero dell’Interno”, riscontrando il dissenso del Ministero delle corporazioni, che però forse non lo indusse a recedere[208]; ed è noto che nel luglio 1940 lo stesso sottosegretario incluse nel divieto di attività di ebrei nello spettacolo (vedi 2.b.12) anche il possesso di azioni di una società che gestiva un cinema[209]. Nella documentazione della Direzione generale per la demografia e la razza è conservato l’appunto manoscritto “Obbligo agli ebrei di denunziare il possesso di azioni (nominative od al portatore) di società anonime”, databile tra il gennaio e l’ottobre 1940[210]; tuttavia non sono al momento noti documenti che attestino lo sviluppo di tale proposito o lo colleghino al successivo rdl 1148/1941 sulla nominatività obbligatoria di tutti i titoli azionari.

La decisione del 1938 di varare norme legislative sugli amministratori delle anonime e non sul possesso delle quote azionarie è presumibilmente collegata a considerazioni governative di ordine generale sull’economia del paese. In attesa di studi specifici sul tema, sembra legittimo sintetizzare che il fascismo, oltre a non voler intaccare legislativamente il diritto liberale di proprietà, intendeva evitare sia “squilibri e ripercussioni” nell’economia italiana sia “l’emigrazione del capitale ebreo investito”, e che perciò esso si dette l’obiettivo di porre “il capitale degli ebrei sotto severo controllo ariano, al servizio della nazione”, prevedendo di operare con cautela e gradualità per “diminuire […] o abolire del tutto l’interessenza giudaica e la collaborazione dei tecnici ebrei”[211].

Oltre che dallo Stato, le indagini sulla “razza” degli azionisti potevano essere effettuate anche da altri; per una banca è documentato l’invito ai direttori delle dipendenze all’inizio del 1939 a indagare, in caso di proposte di concessione di fidi a società, “se, e in quale misura, risulti l’ingerenza di nominativi di razza ebraica nel capitale, nell’amministrazione e nella direzione delle aziende”[212].

Per Trieste sono note 149 modifiche societarie effettuate sin dall’agosto 1938 fino all’ottobre 1939, per lo più relative a Consigli di amministrazione di anonime e per lo più attuate in previsione o in osservanza della normativa sugli amministratori “di razza ebraica”[213].

Le vendite e le svendite di pacchetti azionari (maggioritari o meno) nel 1939-43 sono tuttora difficilmente ricostruibili. Un caso di svendita di una anonima nel febbraio 1939 fu quello di una impresa metallurgico-meccanica di medie dimensioni la cui maggioranza azionaria era posseduta da una famiglia di ebrei e la cui produzione era per il 60 per cento (media trentennale) di carattere militare[214]. Un altro caso di vendita (non è noto se equa o no, ma dopo la Liberazione anche questo venditore tentò invano di invalidarla) riguardò un pacchetto azionario di una filatura, che l’ebreo aveva accresciuto alla fine del 1937, per poi liquidare all’inizio del 1939 preparandosi ad abbandonare l’Italia[215].

2.d. Divieti e limitazioni concernenti la proprietà immobiliare

2.d.1 La revoca dei permessi di residenza alla grande maggioranza degli stranieri “di razza ebraica” (vedi 2.b.1) comportò per essi l’urgenza di liquidare le proprietà immobiliari.

2.d.2 Come già detto (vedi 2.c.2), il 19 novembre 1938 il ministro di Grazia e giustizia ordinò ai notai di “astenersi” per il momento dallo stipulare qualsiasi atto di acquisto o vendita anche di beni immobili da parte di persone “di razza ebraica”. Il divieto venne prorogato per i non “discriminati” dall’11 febbraio 1939 fino alla conclusione della determinazione dei beni immobili da essi posseduti, anche in quota –tali operazioni si conclusero nel secondo semestre del 1939 (vedi 2.a.4)-; era peraltro loro consentito donarle –entro sei mesi- a eventuali congiunti (coniuge o discendenti) non “di razza ebraica” o a enti e istituti educativi e assistenziali[216].

2.d.3 In novembre 1938 fu stabilito e in febbraio 1939 fu regolamentato che gli italiani “di razza ebraica” non “discriminati” non potevano essere né proprietari di terreni con estimo complessivo superiore a L. 5.000 né proprietari di fabbricati con un imponibile complessivo superiore a L. 20.000 (vedi 2.a.4). Riguardo alle proprietà che superavano l’uno o l’altro di tali limiti, il rdl 126/1939 dispose quanto segue: I, La ripartizione dei terreni e dei fabbricati in quote “consentite” e quote “eccedenti” veniva effettuata dagli Uffici tecnici erariali; le quote “eccedenti” dovevano essere trasferite all’appositamente costituito Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egeli), che ne curava la gestione e la vendita per conto dello Stato, anche delegandole ad alcuni Istituti di credito fondiario[217]. II, Il prezzo di esproprio era ottenuto automaticamente applicando il moltiplicatore 80 all’estimo dei terreni e quello 20 all’imponibile dei fabbricati; l’eventuale ricorso dell’ebreo contro i valori così ottenuti era esaminato da una Commissione che “procede alla stima diretta degli immobili con riguardo alla media dei prezzi dell’ultimo quinquennio, depurata dell’aliquota del 20%”[218]. III, Il prezzo di esproprio era corrisposto dall’Egeli all’ebreo sotto forma di “speciali certificati trentennali” nominativi fruttanti l’interesse annuo del 4 per cento pagato in due rate semestrali; questi erano “trasferibili tra vivi” se il destinatario era anch’egli ebreo, altrimenti il trasferimento era consentito in un ristrettissimo numero di casi (e il certificato veniva trasformato da nominativo al portatore); al termine del trentennio i certificati dovevano essere sostituiti con titoli nominativi di consolidato[219]. IV, In caso non fosse stato tecnicamente possibile separare la quota “eccedente” da quella “consentita”, l’immobile era classificato tutto “eccedente” e l’Egeli pagava in contanti la quota “consentita”[220]. V, Il procedimento veniva bloccato e annullato in caso di ottenimento della “discriminazione”, perdita della cittadinanza italiana, trasferimento ereditario a persona non soggetta alla legge; qualora fosse già intervenuta la vendita, il prezzo di esproprio veniva pagato in contanti[221]. Il 22 maggio 1940 la normativa venne estesa agli ebrei apolidi[222].

Gli Istituti di credito fondiario delegati dall’Egeli e le rispettive competenze territoriali vennero stabiliti nel giugno 1939. Essi erano: Credito fondiario dell’Istituto San Paolo di Torino (per i beni di Piemonte e Liguria); Credito fondiario della Cassa di risparmio delle provincie lombarde (Lombardia); Istituto di credito fondiario delle Venezie in Verona (Veneto, province di Trieste, Pola e Fiume); Credito fondiario della Cassa di risparmio di Gorizia (per quella provincia); Istituto di credito fondiario della Regione tridentina (Bolzano e Trento); Credito fondiario della Cassa di risparmio di Bologna (Emilia); Credito fondiario del Monte dei paschi di Siena (Toscana); Credito fondiario della Banca nazionale del lavoro (Marche, Umbria, Abruzzi); Istituto italiano di credito fondiario (Lazio, provincia di Zara); Credito fondiario del Banco di Napoli (Campania, Puglie, Lucania, Calabria); Credito fondiario sardo (Sardegna); Credito fondiario del Banco di Sicilia (Sicilia)[223].

Come detto, alla fine di giugno 1939 il ministro delle Finanze aveva quantificato, “in larga approssimazione”, il totale delle quote individuali “eccedenti” di terreni in L. 4.210.556 di estimo e il totale delle quote individuali “eccedenti” di fabbricati in L. 25.027.399 di imponibile, valori corrispondenti a un prezzo complessivo di esproprio di L. 336.844.480 per i terreni e di L. 500.547.980 per i fabbricati (vedi 2.a.4). A tutto il 31 dicembre 1943 (ma nel secondo semestre non si erano verificate modifiche di rilievo), le quote “eccedenti” di case e terreni effettivamente registrate assommavano a oltre 726 milioni di lire, ovvero –detratte quelle appartenenti a discriminati, quelle donate tempestivamente ecc.- a oltre 272 milioni di lire[224]. Di esse, al termine di un complesso iter burocratico[225], gli Uffici tecnici erariali avevano trasmesso all’Egeli 401 pratiche per un valore complessivo di circa 170 milioni di lire, l’Egeli aveva completato le procedure di acquisizione per 265 di esse, valutate complessivamente L. 55.632.217, e –sempre al dicembre 1943- aveva già perfezionato la vendita di singoli beni per i quali aveva corrisposto agli ex-proprietari ebrei complessivamente L. 9.794.122[226]. A fronte di tale “costo”, l’Egeli aveva ottenuto da queste vendite un ricavo lordo di L. 29.758.500, con spese specifiche limitate a L. 220.774[227].

Nell’aprile 1943 un tenente colonnello segnalò a Mussolini di aver offerto all’Egeli 80.000 lire per l’acquisto di uno studio in via Margutta, a Roma, ma che l’ente gli aveva chiesto un prezzo più alto, “più volte maggiore” di quello corrisposto all’ex-proprietario ebreo; per parte sua l’Egeli fece sapere: “possediamo già varie altre offerte tutte superiori, fra le quali una di L. 130.000, ed è presumibile che l’offerta stessa sia destinata a salire ancora”[228]. A Milano, della quota “eccedente” di un’ebrea facevano parte due porzioni di stabili aventi un prezzo di esproprio di L. 160.000 e L. 520.00, un valore stimato di mercato nel 1940 –secondo lo stesso Ufficio tecnico erariale- di L. 250.000 e 580.000, un prezzo di compravendita nel 1942 di L. 435.000 e 875.000[229].

Riferendosi all’applicazione dei moltiplicatori di 80 per i terreni e 20 per i fabbricati, il Ministero delle finanze precisò nel 1944 che “naturalmente i dati legali così ottenuti […] erano già sensibilmente al di sotto della realtà nel 1939”[230]. Relativamente al tasso di interesse dei “certificati speciali”, un osservatore ebreo osservò nelle settimane precedenti la definizione della legge che “se il saggio non sarà inferiore al 4%, così all’ingrosso mi sembra che in media (livellando cioè le enormi sperequazioni) la confisca sulla parte espropriata si aggirerà intorno al 50%”[231]. In effetti, senza considerare il rapporto tra l’importo della cedola e il valore di mercato del bene espropriato, va rilevato che le obbligazioni trentacinquennali Città di Roma messe in vendita nel dicembre 1938 avevano un tasso annuo nominale del 5 per cento con prezzo di emissione di 0,94, determinanti un “interesse [del] 5,30% circa mentre […] il rendimento effettivo sarà per il sottoscrittore del 5,57%”, al quale si aggiungeva un importo di premi da sorteggiarsi per un altro punto percentuale (nonché migliaia di biglietti ferroviari gratuiti per Roma e una totale esenzione fiscale)[232].

In ottobre 1944 l’Unione delle comunità israelitiche italiane segnalò al governo dell’Italia liberata che il tasso nominale del 4 per cento, “per i gravami della tassa di R. M., imposta patrimoniale, contributo opere assistenziali, etc., ora si riduce appena a uno scarso 2,75%”[233]; in aprile 1945 il governo elevò il tasso al 5 per cento, con effetto retroattivo[234].

2.d.4 Alle norme legislative si aggiunsero talora delle misure disposte da autorità locali. Nel 1939 il prefetto di Trieste requisì per insediarvi comandi militari alcune ville di ebrei con i quali non poteva (vedi 2.c.4) stipulare contratti di affitto[235].

2.e. Censimenti bancari e divieti e limitazioni valutarie e doganali concernenti l’espatrio

2.e.1 Nel settembre 1938 furono disposte varie misure in campo valutario e commerciale contro gli ebrei stranieri colpiti dal divieto di ulteriore residenza (vedi 2.b.1). La loro attività di esportazione commerciale di merci venne subordinata a varie restrizioni e al deposito di una garanzia “adeguata”; venne inoltre disposto il censimento dei loro conti bancari in valuta[236]. Venne disposto il censimento delle loro operazioni di esportazione non ancora completate da cessioni di valuta[237]. Venne disposto che, oltre alla “normale” assegnazione di divisa al momento dell’espatrio (L. 2.500 per persona di oltre 10 anni)[238], e in attesa di un apposito provvedimento sul trasferimento dei loro beni, tutti gli ebrei stranieri emigranti avrebbero potuto ottenere solo “qualche periodica assegnazione di divisa a valere sulle [loro] attività qui esistenti affinché gli stessi possano far fronte in limiti molto modesti alle prime esigenze di vita nella nuova residenza”[239]. Un promemoria interno ricordò che l’esportazione clandestina di lire o valuta straniera era comunque punita col sequestro della somma e l’espulsione della persona, che era stato ritenuto poco utile “sottoporre a restrizioni” i movimenti di fondi nelle banche, che era stata disposta l’intensificazione delle “visite personali ai viaggiatori in uscita” e del “controllo” dei plichi postali diretti all’estero[240].

2.e.2 In ottobre fu disposto che gli ebrei stranieri colpiti dal divieto di ulteriore residenza dovevano obbligatoriamente presentare alla frontiera di uscita una dichiarazione dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero concernente tutti i loro eventuali “impegni o crediti derivanti da operazioni con l’estero”, nonché le relative garanzie[241]; successivamente l’obbligo fu esteso agli altri ebrei stranieri che lasciavano definitivamente la penisola[242]. Fu anche definitivamente disposta la classificazione “di pertinenza estera” di tutti i loro conti e depositi, rendendoli così utilizzabili solo nella penisola e solo per determinati investimenti immobiliari e mobiliari e per spese di soggiorno ecc., nonché –tranne che per L. 5.000 mensili di queste spese- sempre previa specifica autorizzazione dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero[243] .

2.e.3 Alla fine di novembre 1938 l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito dispose la rilevazione dei “crediti di qualsiasi natura, all’infuori degli impegni di carattere valutario, […] verso clienti di razza ebraica con cittadinanza straniera residenti nel Regno”[244].

Il 7 dicembre 1938 l’Ispettorato scrisse direttamente alle singole banche chiedendo, nell’ambito di una “rilevazione generale degli impegni di ebrei verso aziende di credito”, la “posizione debitoria diretta e indiretta dei propri clienti semiti di cittadinanza italiana o straniera” e sollecitando la segnalazione dei nominativi per i quali la banca “a[vesse] interesse ad impedire l’eventuale uscita dal Regno”[245].

2.e.4 In gennaio 1939 fu stabilito quanto segue relativamente al trasferimento all’estero dei beni posseduti dagli ebrei stranieri colpiti dal divieto di ulteriore residenza. Essi dovevano realizzare tutte le proprietà, dimostrando minuziosamente la legittimità del loro possesso, e depositare l’importo complessivo in un “conto di ebreo straniero” (uno solo per ogni persona) o in un “dossier titoli di ebreo straniero”; dopodiché potevano organizzare –seguendo un iter complesso e subordinatamente all’approvazione dell’Istituto nazionale per i cambi con l’estero- l’esportazione di determinati prodotti italiani (l’elenco comprendeva ceramiche artistiche, pietre per costruzioni, profumi, scope di saggina, balocchi e un’altra decina di voci) in paesi coi quali l’Italia non aveva stretto accordi di scambi compensati –come la Francia e gli USA-[246]; tali merci sarebbero state pagate per il 40 per cento con fondi del “conto di ebreo straniero” e per il 60 per cento con versamenti in divisa (per i quali occorreva fornire adeguate garanzie)[247]. I prodotti così esportati erano esclusi da “ogni eventuale facilitazione connessa alla loro esportazione normale”[248]. In tali “conti di ebrei stranieri” dovevano affluire anche i beni pervenuti in data successiva, come le eredità, o come i riscatti di polizze assicurative[249]. Come è stato osservato, “la transazione doveva essere effettuata tramite una ditta italiana di esportazioni, e presupponeva ovviamente che uno avesse un conto estero, oppure un socio in affari o parenti all’estero disposti a anticipare la valuta necessaria. Il comitato milanese di assistenza, in collaborazione con il Joint, si mise a cercare compratori, e a quanto pare ottenne dal governo il permesso di effettuare acquisti collettivi e di conteggiarli a forfait. Del resto non si può non essere d’accordo con Walter Sholes, console generale americano a Milano, il quale riteneva che le merci rese disponibili […] fossero fondi di magazzino impossibili a piazzare sui mercati esteri, e che in questo modo il governo italiano volesse migliorare le sue riserve in valuta e al tempo stesso colpire i promotori del boicottaggio delle merci italiane proclamato in risposta alla politica razziale. Non è ancora chiaro in quale misura fu effettivamente possibile servirsi di questa procedura, nella quale, a causa della differenza tra i prezzi interni e i prezzi per l’esportazione, la perdita poteva arrivare anche al 20-60%. Molte persone riuscirono a rientrare in possesso del proprio patrimonio, pesantemente svalutato a causa dell’inflazione, solo dopo la guerra”[250]. In effetti il Comitato di assistenza per gli ebrei in Italia (Comasebit) di Milano il 23 febbraio 1939 comunicò di aver ottenuto dal Ministero per gli scambi e valute il permesso di “racco[gliere] in vista di un trasferimento globale mediante merci” i suddetti depositi degli ebrei stranieri[251]; non è noto però se e in quale misura ciò sia stato attuato, né se il Comasebit, sciolto d’autorità nel luglio 1939, abbia potuto trasferire tale permesso alla Delegazione per l’assistenza agli emigranti (Delasem) istituita nel dicembre seguente[252]. Probabile testimonianza della difficoltà di realizzare, in un modo o nell’altro, tali transazioni è il fatto che cinque anni dopo almeno alcuni “conti di ebrei stranieri” erano ancora aperti presso almeno un Istituto di credito e vennero confiscati dalle autorità della Repubblica sociale italiana[253].

2.e.5 Il 31 marzo 1939 l’Istituto nazionale per i cambi con l’estero ordinò alle banche, con effetto immediato, di passare “in conti o dossiers intrasferibili” le “somme e titoli di spettanza di cittadini italiani che abbiano trasferito la loro residenza all’estero” (la “razza” non era menzionata)[254]. Probabile testimonianza della difficoltà di trasferire, in un modo o nell’altro, anche questi beni è il fatto che cinque anni dopo almeno alcuni di questi conti “intrasferibili” intestati a ebrei italiani erano ancora aperti presso almeno un Istituto di credito e vennero confiscati dalle autorità della Repubblica sociale italiana[255].

2.f. Divieti e limitazioni concernenti altri beni

2.f.1 Dopo l’approvazione all’inizio di settembre 1938 dei provvedimenti persecutori sugli ebrei stranieri e sulla scuola, la vigilanza doganale venne ulteriormente (vedi 1.e.1) incrementata. Il 9 e l’11 settembre i ministeri delle Finanze e dell’Interno diramarono due autonome circolari telegrafiche sull’intensificazione concordata dei controlli doganali[256]; il 10 e l’11 settembre il secondo ministero inviò almeno altri tre telegrammi sul tema a prefetti, commissari e questori delle zone confinarie[257]; la vigilanza concerneva anche l’applicazione delle nuove restrizioni disposte in campo valutario e commerciale (2.e.1). Tra ottobre e dicembre il ministero dell’Interno segnalò ai prefetti la possibilità che ebrei stranieri utilizzassero “passaggi su navi da carico estero” per “eludere severità controllo doganale et asportare possibilmente valuta et preziosi”[258], o che gli ebrei realizzassero tale fine utilizzando inserzioni matrimoniali sul “Corriere della sera”[259] o giovandosi della “prestazione interessata di qualche prelato del Vaticano ed anche attraverso i vari Istituti religiosi”[260]. In dicembre 1938 infine venne varato un provvedimento legislativo sulla repressione delle violazioni delle leggi valutarie, definito “indifferibile” o “di assoluta urgenza” e peraltro privo di alcun riferimento esplicito alla politica antiebraica, che inaspriva le pene pecuniarie, trasformava varie infrazioni in delitti, introducendo la possibilità dell’arresto dei responsabili, e regolamentava il passaggio in proprietà dello Stato delle valute e dell’oro sequestrati[261].

Secondo un riepilogo approntato dalla Direzione generale delle dogane e delle imposte indirette, i “sequestri più importanti di valute e di preziosi” effettuati tra metà settembre e metà ottobre 1938 avevano interessato, relativamente alle persone in uscita dall’Italia, sette ebrei, tre persone apparentemente non ebree e alcune altre persone non definite[262].

Il 4 marzo 1939 il ministro dell’Educazione nazionale diramò una circolare intitolata “Provvedimenti in difesa del patrimonio artistico nazionale in mano di ebrei”, che, “specie in vista dell’allontanamento dal Regno degli ebrei stranieri”, invitava gli uffici addetti ai nulla osta per l’esportazione di oggetti di antichità e d’arte a tenere presente che: I, “una valutazione piuttosto larga del pregio dell’opera […] determina automaticamente un’estensione della sfera di applicazione del veto”; II, comunque, “la valutazione data del pregio dell’opera produce necessariamente un aumento di tassa, aumento che, a sua volta, può agire come remora efficace alle richieste di esportazione”; III, peraltro era sempre possibile esercitare il diritto di acquisto riconosciuto allo Stato, tenendo tuttavia presenti “le esigue disponibilità finanziarie”[263] (per il trasferimento all’estero di valuta da parte di ebrei stranieri e italiani emigranti, vedi 2.e.4, 2.e.5). Trasmettendo questa circolare alla Presidenza del consiglio dei ministri, la Direzione generale per la demografia e la razza riferiva che il Ministero dell’educazione nazionale aveva sollecitato il Ministero delle finanze a “dirama[re] opportune disposizioni ai R. Uffici di Dogana perché esercitino una più rigorosa sorveglianza in vista dell’imminente esodo degli ebrei”[264].

La circolare del 4 marzo riprendeva ampiamente la risposta inviata il 5 gennaio 1939 dallo stesso ministro dell’Educazione nazionale a una lettera del 19 dicembre 1938 del soprintendente alle belle arti di Trento, “trov[atosi] ora di fronte ad alcune spedizioni contenenti anche vari oggetti di interesse artistico assai rilevante”[265]. In effetti, poco prima o poco dopo le date qui indicate, un ebreo tedesco arrivato a Merano dalla Germania nel 1936 e ora “tenuto a lasciare il territorio del Regno”, aveva richiesto il nulla osta per l’esportazione di alcuni oggetti d’arte (“quadri, miniature ed incisioni, per i quali venne rilasciata la prescritta licenza dietro il pagamento della tassa di esportazione in L. 3.520, per un valore stimato di L. 44.000”)[266] e ne aveva nascosti altri (69 porcellane tedesche del XVIII secolo, successivamente stimate in L. 48.580) nelle masserizie; tuttavia, dietro indicazione proprio del soprintendente alle belle arti di Trento, il direttore della Dogana di Merano “sottopo[se] le masserizie del sig. Kaumheimer ad una visita particolarmente severa allo scopo di vedere se non fosse forse possibile di rintracciarli nascosti in qualche mobile o cassa”[267]; la perquisizione (condotta in due volte) ebbe esito positivo e sfociò in una multa ai danni del perseguitato e nella confisca delle porcellane a favore dello Stato[268].

2.f.2 I fenomeni di ribasso di quotazioni di borsa conseguenti alle vendite effettuate da azionisti ebrei e concernenti proprio anche dette vendite (vedi 1.d.1) sembrano essere proseguiti nel periodo immediatamente successivo al varo delle prime leggi persecutorie.

Per Trieste, ove il prefetto aveva disposto specifiche indagini, nel gennaio 1939 il comandante dei carabinieri e il questore riferirono l’uno che “la forte discesa dei titoli assicurativi (Generali, Adriatica di Sicurtà) è dovuta soprattutto a necessità da parte degli ebrei, possessori delle azioni nominative in ragione del 90%, di svendere per realizzare denaro contante più difficilmente controllabile in caso di provvedimento di carattere economico contro di essi”, nonché ai riflessi dei cambiamenti nella direzione di quelle società determinati dalla politica antiebraica, e l’altro che il ribasso di tutti i titoli assicurativi era dovuto “al fatto che molti ebrei si sono totalmente o parzialmente liberati delle azioni in loro possesso, mentre altri detentori, anche non ebrei, hanno seguito la stessa tattica sol perché preoccupati della continua discesa dei titoli stessi. Di fronte a tale afflusso si è verificato che molti di detti titoli qualche giorno non hanno trovato compratori”[269].

2.f.3 Il 2 settembre 1942 la Confederazione fascista delle aziende del credito comunicò a queste ultime che il Ministero delle finanze, “su conforme parere” della Direzione generale per la demografia e la razza, aveva vietato alle persone “di razza ebraica” italiane e straniere di concludere contratti di borsa “a carattere strettamente speculativo (contratti a premio, riporti borsistici)” e aveva vietato a “ciascun nucleo familiare di razza ebraica” di concludere “compravendite effettive” (con la sola esclusione degli acquisti di titoli di Stato) che superassero il limite mensile (familiare) di L. 100.000. Nei mesi seguenti fu tra l’altro comunicato che, sempre per disposizione ministeriale, in detto limite dovevano essere computate anche le operazioni sui “titoli di piccole società non quotati in borsa” (4 dicembre 1942), “la rinnovazione dei riporti finanziari precedentemente in essere” (7 gennaio 1943), “l’esercizio e la vendita dei diritti di opzione” (10 maggio 1943) ecc., e che gli ebrei “discriminati” erano esclusi da tutta questa normativa (1° marzo 1943)[270].

2.f.4 A partire dal giugno 1940, gli ebrei presenti in Italia cittadini di Stati ai quali il Regno d’Italia via via dichiarò guerra e (relativamente ai beni posseduti in Italia) gli ebrei (anche italiani) residenti in detti Stati subirono le limitazioni alle attività lavorative e ai beni disposte dalla legge di guerra italiana contro tutti i cittadini di paesi nemici.

In base ad essa furono disposti alcuni provvedimenti di sequestro di masserizie e colli di ebrei depositati nei magazzini portuali, provvedimenti che, almeno a Trieste, ebbero un dichiarato carattere antiebraico: l’11 maggio 1943 il prefetto di Trieste sequestrò “i colli e cassoni di masserizie appartenenti ad ebrei emigrati […] giacenti nei locali Magazzini Generali” in quanto essi “sono da considerarsi quale merce nemica”[271]. Si trattava di 667 cassoni, misuranti ciascuno da 5 a 8 metri cubi e da mille a cinquemila chilogrammi, con un valore assicurato complessivo dell’ordine di sessanta milioni di lire al 1939, contenenti in genere l’arredamento di un intero appartamento, provenienti in primo luogo dalla Germania e poi da vari altri paesi europei, destinati per lo più in Palestina, nelle Americhe, in Gran Bretagna e nei suoi Dominii[272]. Per quanto concerne Genova, durante il periodo dei “quarantacinque giorni” dell’estate 1943 un’organizzazione ebraica di assistenza affermò, in una lettera concernente i bagagli di un ebreo straniero emigrato all’estero, che “le autorità competenti che hanno dato l’ordine di sequestro permettono ora il loro svincolo” e che la loro spedizione al proprietario è resa più facile dal fatto che egli “non risiede in territorio nemico”[273].

2.g. Divieti e limitazioni concernenti l’assistenza

Relativamente a questo ambito, una ricerca non esaustiva ha portato all’individuazione delle seguenti disposizioni (vedi anche 2b.15).

2.g.1 Nel febbraio 1940 la Direzione generale per la demografia e la razza precisò al Ministero della cultura popolare che le persone “di razza ebraica” dovevano indirizzare le richieste di sussidio “alla Comunità israelitica, cui per legge è devoluta l’assistenza agli ebrei bisognosi”[274].

2.g.2 Nel dicembre 1940 il Gabinetto del Ministero dell’interno comunicò alla Direzione generale per la demografia e la razza che, “giusta istruzioni avute, […] gli ebrei non possono essere iscritti nell’elenco dei poveri”, cioè usufruire dell’assistenza pubblica[275].

2.g.3 In data precedente al 1942 le “famiglie bisognose di razza ebraica” furono escluse, salvo casi eccezionali, dalla “assistenza invernale” prestata dagli Enti comunali di assistenza[276].

2.g.4 Una legge del settembre 1940 stabilì la cessazione dal luglio 1938 del contributo statale annuo a favore degli asili infantili israelitici di L. 11.500[277].

2.g.5 Nel gennaio 1940 il Gabinetto della Presidenza del consiglio dei ministri stabilì che le persone “di razza ebraica” non potevano usufruire dell’esonero dalle tasse di esame e di diploma previsto sia per i figli di famiglia numerosa sia per gli orfani e i figli di mutilati o invalidi di guerra o per la causa nazionale[278].

2.g.6 I moduli per l’assegnazione degli alloggi dell’Istituto fascista autonomo per le case popolari della provincia di Genova (e presumibilmente di quelli delle altre province) utilizzati nel marzo 1941 contenevano la frase: “dichiaro che io e la mia famiglia non siamo di razza ebraica”[279].

2.g.7 Nel marzo 1942 il Gabinetto del Ministero dell’interno stabilì che “non deve consentirsi agli ebrei di acquistare carne di bassa macellazione presso lo spaccio apposito del rione Trastevere”[280].

Già alla fine del 1938 un dirigente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane parlava di “impellenti dolorose necessità di tanti correligionari stranieri divenuti improvvisamente indigenti, mentre comincia ad avanzarsi lo spettro della indigenza di correligionari connazionali colpiti dai recenti provvedimenti”[281]; mentre nel 1942 il presidente dell’ente di assistenza della Comunità israelitica di Roma affermava: “Le sofferenze dei nostri poveri non si leniscono con le dieci, quindici o venti lire che ora siamo costretti a dare. A parte le difficoltà dei contingentamenti, essi hanno bisogno di tutto: dalle vesti o altri indumenti, alle lenzuola, ai materassi, all’aiuto finanziario (spesso richiesto) più importante per pagare fitti arretrati e per evitare dolorosi sfratti. Spesso vengono da noi correligionari di altre Comunità che desiderano i mezzi per far ritorno a casa, senza parlare dell’assistenza ai confinati politici, e ancora e ancora”[282].

II.   LA NORMATIVA ANTIEBRAICA DEL 1943-1945 SULLA SPOLIAZIONE DEI BENI

Premessa

In questo capitolo sono segnalate le misure e le altre vicende disposte o avvenute ai danni dei beni delle persone classificate “di razza ebraica” nel territorio italiano posto sotto il controllo del governo e della struttura amministrativa dello Stato infine denominatosi Repubblica sociale italiana e della struttura militare, di polizia e amministrativa del Terzo Reich, dall’8 settembre 1943 alla fine di aprile 1945. Detto territorio corrisponde sostanzialmente alle regioni centrali e settentrionali della penisola, poiché le regioni dell’Italia meridionale e insulare vennero liberate entro la fine di settembre 1943 senza che vi fossero state introdotte nuove misure persecutorie.

Sono presi in considerazione gli ambiti dei beni mobili e immobili, senza dedicare attenzione particolare a quelli delle attività lavorative e dell’assistenza, divenuti ormai secondari. Va tenuto presente che la condizione degli ebrei in quei mesi fu determinata soprattutto dalla persecuzione delle loro vite e che la definizione giuridica di ebreo e altri aspetti della persecuzione continuavano a essere regolati dalla normativa del 1938; per il quadro complessivo della deportazione e della normativa persecutoria si rimanda a L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945). Ricerca del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano 1991; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000.

Il riepilogo qui proposto non può essere considerato esaustivo. Per alcune delle misure e vicende riepilogate vengono segnalati casi esemplificativi e quantificazioni. In alcuni casi, le misure qui riepilogate e i loro effetti concreti sono descritti con maggiore analiticità e completezza in altri capitoli del Rapporto.

1. Il quadro generale

La spoliazione dei beni degli ebrei d’Italia nel 1943-1945 ebbe luogo mentre questi o venivano arrestati e deportati o riuscivano a fuggire e a nascondersi, abbandonando comunque i beni posseduti (a partire dalle case di abitazione).

1.a. Il territorio, i governi, gli ebrei

L’8 settembre 1943 venne diffusa la notizia dell’avvenuta stipula dell’armistizio tra Alleati e Regno d’Italia. Il territorio di questo si trovò diviso in due parti, separate dalla linea mobile del fronte. Agli inizi di ottobre 1943, la zona controllata dagli Alleati e dal Regno d’Italia comprendeva la Sicilia, la Sardegna, la Calabria, la Basilicata, la Puglia e la Campania. Quando quest’ultima regione venne liberata, nazisti e fascisti non avevano avuto ancora modo di introdurvi nuove misure antiebraiche. Nelle regioni dell’Italia centrale e settentrionale, l’8 settembre 1943 segnò l’inizio di un periodo che durò nove mesi a Roma, undici a Firenze, venti nelle città dell’Italia settentrionale.

Nelle regioni nordorientali del Regno d’Italia, le autorità del Terzo Reich istituirono subito due “zone” speciali: la Operationszone Alpenvorland (Zona di operazione Prealpi, comprendente le province di Bolzano, Trento e Belluno) e la Operationszone Adriatisches Kuestenland (Zona di operazione Litorale adriatico, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana). In esse i tedeschi assunsero sia le responsabilità di ordine militare sia quelle di ordine civile. Nel resto della penisola essi assunsero solo le responsabilità di ordine militare, mentre quelle civili furono assunte dalla nuova amministrazione italiana fascista. Quest’ultima iniziò a configurarsi formalmente il 23 settembre, quando Mussolini annunciò dalla Germania la composizione del governo del nuovo Stato fascista, che il 1° dicembre 1943 assunse il nome di Repubblica sociale italiana-Rsi.

Agli ebrei che già si trovavano nell’Italia centrale e settentrionale si aggiunsero subito 1.300-1.500 ebrei stranieri, fuggiti precipitosamente dopo l’8 settembre dalla Francia sudorientale[283]. In complesso, le persone classificate “di razza ebraica” assoggettate alla nuova persecuzione delle vite nell’Italia centrale e settentrionale furono circa 43.000, suddivise in circa 8.000 stranieri o apolidi ex italiani[284] e in forse 35.000 italiani[285]. Esse erano variamente distribuite nelle regioni, con una particolare presenza a Roma, ove risiedeva più di un quarto degli ebrei italiani.

Di tutti essi, circa 500 riuscirono a passare la linea del fronte (talora aggirandola, sull’Adriatico) e a raggiungere le regioni meridionali della penisola. Altri 5.500-6.000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera. Circa 7.700-7.900 persone classificate “di razza ebraica” vennero arrestate nella penisola (il dato non comprende gli oltre 200 arrestati nei territori jugoslavi di Arbe e Susak e di lì trasferiti a Trieste) per poi essere deportate o uccise in Italia; più precisamente, vi furono 6.720 deportati oggi identificati (5.896 uccisi e 824 sopravvissuti), 680-880 deportati dei quali non è stato possibile appurare i nomi (presumibilmente per lo più uccisi) e 299 uccisi in Italia per eccidio o comunque per responsabilità dei persecutori[286]. Le altre circa 29.000 persone classificate “di razza ebraica” vissero in clandestinità fino alla Liberazione; di esse, un migliaio partecipò alla lotta partigiana[287].

1.b. Arresti, deportazioni, eccidi

La nuova fase della persecuzione antiebraica fu gestita solo dai tedeschi nelle zone di operazione Prealpi e Litorale adriatico, e dapprima dai soli tedeschi e poi da questi assieme agli italiani nelle altre regioni.

1.b.1 Per parte tedesca, gli arresti di ebrei erano di competenza di una sezione di polizia specializzata: la sezione B4 dell’ufficio IV (Geheime Staatspolizei/Gestapo; Polizia segreta di Stato) della polizia di sicurezza (Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst/Sipo-SD; Polizia di sicurezza e Servizio di sicurezza); sezione che rispondeva direttamente all’ufficio centrale di quest’ultima (Reichsicherheitshauptamt/RSHA; Direzione generale per la sicurezza del Reich). L’articolazione italiana della Sipo-SD venne insediata a Verona; nelle zone di operazione ne vennero insediate due parzialmente autonome.

Le azioni antiebraiche tedesche iniziarono subito dopo l’8 settembre. Nella zona di Bolzano gli arresti furono avviati con immediatezza, ad opera della neocostituita polizia locale di sicurezza e dell’ordine (SOD) e della Sipo-SD. Tra metà settembre e i primi di ottobre, reparti tedeschi dell’esercito o della polizia militare procedettero al rastrellamento e all’internamento di ebrei del Cuneese, al rastrellamento e all’uccisione di ebrei sulla sponda piemontese del lago Maggiore, al rastrellamento e all’internamento di ebrei della provincia di Ascoli Piceno. La prima di queste azioni era connessa alla particolare situazione del luogo, le altre ebbero probabilmente motivazioni di “sicurezza”; esse furono affiancate dalla conferma o dal ripristino dell’internamento degli ebrei stranieri già assoggettati a tale misura. Sempre in base a motivazioni di “sicurezza”, altre strutture di polizia tedesche -ad esempio quelle dislocate sulla frontiera con la Svizzera- procedettero, per tutto il periodo dell’occupazione, all’arresto di singoli ebrei e alla loro consegna alla sezione specializzata.

Quest’ultima ricevette poco dopo la metà di settembre l’ordine formale di estendere agli ebrei italiani e al territorio italiano le misure antiebraiche da molti mesi attuate negli altri paesi europei[288]. Le prime azioni di arresto gestite dalla sezione IVB4 furono quelle di sabato 9 ottobre a Trieste, ove operava, come già ricordato, un apparato autonomo, e di sabato 16 a Roma; all’azione nella capitale fecero seguito i rastrellamenti attuati tra fine ottobre e i primi di novembre in Toscana, a Bologna e nel triangolo Torino-Genova-Milano. Età, sesso e condizioni di salute delle vittime non costituirono mai motivo per eccezioni o esenzioni; nei mesi di fine 1943 però la polizia tedesca non arrestava o rilasciava immediatamente gli ebrei cittadini di determinati Stati e quelli con il coniuge o un genitore “di razza ariana”. Dopo la decisione della Rsi di procedere direttamente agli arresti, le retate della Sipo-SD nella penisola diminuirono in numero e intensità.

1.b.2 Per parte italiana, gli arresti di ebrei non erano di competenza di sezioni di polizia specializzate; essi facevano capo alla Direzione generale della pubblica sicurezza insediata a Valdagno, in provincia di Vicenza, ovvero al capo della polizia e al Ministero dell’interno insediati a Toscolano Maderno, sul lago di Garda in provincia di Brescia. La Direzione generale per la demografia e la razza del Ministero dell’interno e poi il nuovo Ispettorato generale per la razza della Presidenza del consiglio dei ministri non ebbero mai competenze sugli arresti.

La politica antiebraica della Rsi giunse a un primo punto fermo il 14 novembre 1943, quando, a Verona, la prima assemblea del nuovo Partito fascista repubblicano (Pfr) approvò un “manifesto programmatico” il cui punto 7 stabiliva: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”[289]. Il 30 novembre il ministro dell’Interno diramò l’”ordine di polizia” n. 5 che disponeva l’arresto e l’internamento di “tutti gli ebrei, […] a qualunque nazionalità appartengano” e il loro internamento “in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati”[290]. Dal 1° dicembre 1943 i prefetti (ora denominati capi delle province) della Rsi cominciarono ad allestire i campi di internamento provinciali (talora adibendo allo scopo carceri o edifici delle comunità ebraiche)[291] e i questori iniziarono a effettuare gli arresti.

Anche da parte italiana, tra i corpi che contribuirono con un apporto specifico relativamente consistente all’arresto degli ebrei vi furono quelli incaricati della sorveglianza al confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti “dai primi di ottobre ad oggi” e dei “rilevanti valori” sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943 il comando della II legione “Monte Rosa” della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: “E’ così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica –rifugio di rabbini- tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda”[292].

La Rsi rilasciò o non arrestò gli ebrei rumeni, svizzeri e turchi[293]. Quanto agli altri, il 10 dicembre 1943 il capo della polizia dispose che fossero esentati dagli arresti gli ebrei italiani “malati gravi” e ultrasettantenni e, “per ora”, gli ebrei italiani aventi un genitore o il coniuge classificati “ariano”. Il 28 dicembre il ministro dell’Interno precisò che tali disposizioni avevano solo lo scopo di “stabilire una gradualità nell’invio ai campi di concentramento”; ma il 20 gennaio 1944 lo stesso ministro dette istruzioni di “soprassedere” all’arresto dei membri di famiglie miste, senza alcuna specificazione di nazionalità, e due giorni dopo il capo della polizia comunicò ai capi delle province che l’arresto di questi ultimi era “per ora sospeso”. Il 7 marzo quest’ultimo confermò che tutti i membri di famiglie miste -stranieri inclusi- erano “esclusi” dall’internamento e ribadì l’esenzione per i malati gravi e gli ultrasettantenni, estendendola agli ebrei stranieri. Non furono disposte altre esenzioni; peraltro sembra fosse in atto un processo di limitazione di quelle già concesse[294].

1.b.3 Gli ebrei arrestati dai tedeschi e dagli italiani vennero raggruppati in carceri o campi della penisola e poi deportati dai tedeschi nel campo di Auschwitz, con convogli diretti o (nel caso degli arrestati nel settembre 1943 in Alto Adige e nel Cuneese) con tappa intermedia nei campi di Reichenau e Drancy (rispettivamente in Austria e Francia); dal 1944 gli ebrei con nazionalità inglese o di altro Stato “nemico” o “neutrale” vennero deportati nel campo di Bergen Belsen. Inizialmente i convogli partirono dalle località degli arresti; dal febbraio 1944 partirono dai campi nazionali di concentramento degli ebrei arrestati: Fossoli di Carpi in provincia di Modena e poi (dall’agosto 1944) Bolzano-Gries. Nel Litorale adriatico gli ebrei arrestati dai tedeschi vennero sempre concentrati a Trieste, dapprima nel carcere del Coroneo e poi nel campo della Risiera di San Sabba; da lì furono deportati ad Auschwitz[295].

1.b.4 L’eccidio più grave fu quello dei 75 ebrei uccisi per rappresaglia -assieme a 260 non ebrei- il 24 marzo 1944 da tedeschi alle Fosse Ardeatine a Roma; il secondo in gravità -e primo in ordine cronologico- fu quello dei 56 ebrei uccisi per rapina tra il 15 settembre e l’11 ottobre 1943 da tedeschi sulla sponda piemontese del lago Maggiore e sul lago d’Orta e a Novara; il più grave compiuto da italiani -e ultimo in ordine cronologico- fu quello di 6 ebrei detenuti nel carcere di Cuneo uccisi per rabbia il 26 aprile 1945.

2. La normativa della spoliazione e la sua attuazione

Mentre le limitazioni patrimoniali attuate nel 1938-1943 e gli arresti attuati nel 1943-1945 furono condotti sostanzialmente in base alle rispettive normative, la spoliazione dei beni attuata nel 1943-1945 fu composta da un complesso intreccio tra applicazioni “regolari” della normativa, applicazioni “irregolari” e furti e impossessamenti di vario tipo (questi ultimi qui non trattati).

2.a. La normativa della Rsi

La nuova normativa nazionale sui beni degli ebrei venne elaborata e iniziò ad essere emanata contemporaneamente a quella concernente gli arresti.

2.a.1.1 Ai beni prelevati “formalmente” dalle tasche e dalle mani degli ebrei al momento dell’arresto (denaro, anche in valuta estera, gioielli e valori, valige, ecc.) vennero applicate normative diverse. In alcuni casi essi vennero sequestrati o confiscati ai sensi della normativa generale sui beni degli ebrei (vedi 2.a.2.1 e 2.a.3.1). In altri casi vennero “trattati” ai sensi di altre normative: essi pertanto furono trattenuti dall’autorità responsabile della prima detenzione dell’ebreo o ne seguirono gli spostamenti carcerari fino all’ultima tappa o a una tappa intermedia, oppure vennero trattenuti da autorità di polizia o giudiziarie, in genere in connessione col fatto che all’ebreo arrestato in prossimità del confine italo-elvetico veniva contestato il reato di espatrio clandestino o quelli di contrabbando o esportazione clandestina (questi ultimi erano puniti tra l’altro dalla l 5 dicembre 1938, n. 1928, Norme per la repressione delle violazioni delle legge valutarie, che era stata introdotta per colpire l’esportazione clandestina di valori da parte degli ebrei stranieri a quell’epoca espulsi dalla penisola).

Le notizie concernenti il deposito dei valori presso i luoghi di detenzione sono ancora assai parziali (e quasi mai certo è il loro destino finale). Il 30 marzo 1945 il capo della provincia di Bologna comunicò al direttore delle carceri giudiziarie di Bologna la necessità di procedere alla confisca formale dei “depositi degli oggetti, danaro, valori, titoli ecc. appartenenti ad ebrei, esistenti presso codeste Carceri” e il 10 aprile questi gli inviò un elenco di trentasette depositi (con importi da 9 a 5.077 lire) appartenenti ad ebrei che erano stati trasferiti da quel carcere anche da oltre un anno[296]. Il 17 marzo 1944 il capo della provincia di Verona chiese alla questura di Roma l’invio delle somme (da 250 a 50.230 lire) che erano state sequestrate a nove ebrei romani arrestati a Roma e –in attesa della deportazione- trasferiti momentaneamente a Verona, ciò al fine di “provvedere alle ingenti spese di vitto e assistenza” degli stessi[297]. Nel marzo 1944 l’ufficio postale di Monticelli Terme rimborsò nove libretti di risparmio (con importi da 800 a 10.000 lire) a ebree in procinto di essere trasferite dal campo di quel comune a quello di Fossoli[298].

Relazionando al capo della provincia di Como sui cinquantotto ebrei arrestati in quella provincia fino al 12 dicembre 1943, il comando della II legione “Monte Rosa” della Guardia nazionale repubblicana confinaria precisò che si trattava di “comitive giudaiche solite a nascondere nei loro, più o meno cenciosi bottini, preziosi e valori sottratti alla ricchezza Nazionale”[299]; questa qualificazione data ai valori può aver determinato o contribuito a determinare il successivo destino di parte degli stessi (vedi 2.a.4.1). Del tutto ignoto è invece il destino dei beni (comprendenti, tra l’altro, 4.423 lire e alcuni oggetti d’oro) sequestrati a cinque ebrei arrestati in Valdossola il 28 dicembre 1943 dal medesimo corpo confinario e denunciati (e poi processati, pur essendo nel frattempo già stati deportati ad Auschwitz) per il reato di espatrio clandestino[300].

2.a.1.2 Nelle settimane intercorse tra l’8 settembre 1943 e l’inizio di novembre, per lo meno un’autorità provinciale dispose una prima misura locale concernente i beni degli ebrei. Il 19 ottobre 1943 il capo della provincia di Como ordinò agli istituti di credito della provincia di comunicargli “entro 24 ore” l’ammontare dei depositi di qualsiasi tipo intestati a “cittadini di razza ebraica”, e di porre un limite giornaliero di trenta lire ai prelievi su di essi[301]. La disposizione, come tutte quelle locali e nazionali successive, venne attuata utilizzando gli elenchi delle persone “di razza ebraica” forniti dalla questura (in questo caso) o altri uffici statali[302].

Tra le misure locali non espressamente antiebraiche possono essere segnalate le disposizioni di fine ottobre dei capi della provincia per il recupero di alloggi da assegnare ai senzatetto e agli sfollati a causa dei bombardamenti aerei, ivi compresi quelli “non occupati permanentemente” o “affittati ma vuoti”[303]. Sembra infatti che sia da connettersi ad esse il fatto che il 5 novembre il capo della provincia di Grosseto chiese ai podestà “il numero degli ebrei esistenti in ciascun comune”, “il modo come essi sono sistemati con gli alloggi”, e, per ciascuna famiglia, “il numero dei componenti ed il numero delle stanze occupate”[304], e il fatto che la questura di Asti condusse in quei giorni un’indagine del genere, sfociata in un riepilogo indicante quali famiglie ebree erano assenti e se i loro appartamenti erano liberi o già assegnati a sfollati[305].

2.a.1.3 Il 5 e 6 novembre 1943 i quotidiani dettero il primo annuncio del prossimo varo di una nuova normativa: il ministro dell’Interno stava per presentare a Mussolini un progetto di legge sulla “questione razziale” comprendente anche “la confisca dei beni mobili e immobili degli ebrei”[306].

Il 14 novembre 1943 la prima assemblea del Pfr, riunita a Verona, stabilì tra l’altro che “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”[307]. Nel corso dei suoi lavori, il segretario del Pfr Alessandro Pavolini affermò che si stava “provvedendo al prelievo dei patrimoni ebraici [per] provvedere ai bisogni dei sinistrati dai bombardamenti”[308]. Delle due dichiarazioni di Verona (entrambe di carattere politico e non normativo), la prima conteneva un rimando implicito al sequestro dei beni delle persone e degli enti “di nazionalità nemica”, disciplinato dalla legge di guerra approvata con rd 8 luglio 1938, n. 1415, e dal regolamento sul “trattamento dei beni nemici” approvato con rd 10 marzo 1941, n. 618; la seconda confermava l’anticipazione di stampa sulla confisca e ne indicava la destinazione ufficiale.

2.a.1.4 Attualmente è noto un solo caso di autorità locale che abbia concretizzato autonomamente le dichiarazioni politiche del 14 novembre 1943 (2.a.1.3), ossia che abbia disposto un sequestro generalizzato prima dell’emanazione dell’ordine del 30 novembre (2.a.2.1). Il 16 e 17 novembre 1943 il capo della provincia di Grosseto diramò le seguenti disposizioni sui beni degli ebrei “che sono da considerarsi cittadini di nazione nemica dell’Italia”[309]: “immediato sequestro di tutte le proprietà terriere […] appartenenti a cittadini di razza ebraica ”[310], “inventario di tutta la merce esistente” e “piantonamento dei magazzini gestiti […] da ditte di razza ebraica”[311], “immediato fermo di tutti i crediti esistenti presso le Casse Postali, Istituti di Credito, Banche, Ditte e privati intestati a cittadini di razza ebraica”[312].

2.a.1.5 Il 24 novembre 1943 il Consiglio dei ministri approvò un primo provvedimento legislativo sui beni degli ebrei: un decreto legislativo del duce che disponeva la denuncia da parte dei possessori e il sequestro ad opera dei capi delle province (su richiesta dei soprintendenti interessati e secondo la procedura della legge di guerra, quando compatibile) dei beni artistici, archeologici, storici e bibliografici appartenenti “a persone di razza ebraica o ad istituzioni israelitiche”; i capi delle province potevano confiscare i beni non denunciati. Il provvedimento inoltre dichiarava nulli i trasferimenti di proprietà avvenuti dopo il 23 novembre 1943 e prevedeva la possibilità di dichiarare nulli quelli effettuati prima di tale data[313]. Anche se il 17 marzo 1944 la Presidenza del consiglio informò i ministri che il decreto legislativo –datato 2 marzo 1944- era finalmente “in corso di pubblicazione”[314], esso non venne mai pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale d’Italia” e pertanto non entrò mai in vigore. Ciononostante sin dal 1° dicembre 1943 il ministro dell’Educazione nazionale, che aveva proposto il decreto, ne diffuse le circolari attuative e molti uffici lo considerarono a tutti gli effetti vigente[315]. Nel corso del 1944 il prelievo dei beni artistici confluì nella più generale opera di confisca (vedi 2.a.3.4)

La circolare del 1° dicembre 1943 prescriveva tra l’altro: “I Podestà sono tenuti a inoltrare entro il 20 dicembre al Capo della Provincia, insieme alle denuncie [delle opere d’arte], l’elenco di tutti i cittadini di razza ebraica residenti nella circoscrizione del Comune”[316]; gli elenchi erano destinati ai soprintendenti, assieme alle denunce, tuttavia il loro transito nelle prefetture favorì in alcune province l’aggiornamento delle notizie sulla presenza di ebrei.

2.a.2.1 Il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno diramò l’ordine di polizia n. 5, che, oltre a disporre l’arresto e l’internamento di “tutti” gli ebrei (italiani e stranieri, “discriminati” e non), dava una prima concretizzazione normativa all’anticipazione di stampa e alle dichiarazioni di metà novembre: “Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche”[317]. La disposizione concerneva solo i beni posseduti dalle persone fisiche. Essa non faceva alcun riferimento alla suddivisione del 1938-39 dei beni immobili in “quota consentita” e “quota eccedente”, né contemplava eccezioni relativamente al valore o alle caratteristiche dei beni.

In varie province (ad esempio Brescia, Mantova, Savona, Verona e Venezia) i decreti di sequestro fecero esplicito riferimento alla legge di guerra (rd 1415/1938); in quelli delle prime quattro veniva richiamato anche l’ordine del 30 novembre, in quelli dell’ultima veniva solo precisato che il proprietario dei beni da sequestrare era ebreo “e quindi considerato nemico”. Il rd 1415/1938 tra l’altro stabiliva all’art. 296 che il sequestro doveva essere disposto con decreto del prefetto (nella Rsi denominato capo della provincia) e all’art. 298 che esso doveva essere pubblicato nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia” (nella Rsi denominata “Gazzetta ufficiale d’Italia”).

A partire dal 1° dicembre 1943 ciascun capo della provincia diramò una o più ordinanze contenenti le istruzioni alla cittadinanza per l’applicazione dell’ordine del 30 novembre. Molti di essi, ispirandosi a quanto disposto dalla legge di guerra (rd 1415/1938; integrato dalla l 19 dicembre 1940 n. 1994), informarono i cittadini e gli enti “ariani” dell’obbligo di dichiarare alla prefettura (e non restituire ai proprietari) qualsiasi eventuale debito verso ebrei (cfr. rd 1415/1938, art. 309-311; l 1994/1940, art. 1-2) o possesso temporaneo di loro beni (cfr. l 1994/1940, art. 2), e della nullità di eventuali nuovi atti di trasferimento dei beni di ebrei (cfr. rd 1415/1938, art. 312), ecc.[318]. I cittadini e gli enti “ariani” vennero anche avvisati che i contravventori sarebbero stati “puniti a termine della legge di guerra”[319], ovvero “denunciati quali rei di sottrazione di beni allo Stato e favoreggiamento di sudditi nemici”[320].

Il capo della provincia di Ferrara dispose: “la revisione di tutti i passaggi di proprietà tra ebrei o da ebrei ad ariani dovrà avere inizio dal 1° gennaio 1937 e gli accertamenti dovranno essere estesi anche al trapasso dei valori azionari e alle costituzioni o trasformazioni di Società anonime”[321]. Il capo della provincia di Firenze precisò che l’obbligo di denuncia alla prefettura vigeva anche per “tutte le imprese, ditte o privati esercenti trasporti che, a partire dal 1° dicembre 1943 XXII, ne [=degli ebrei] abbiano curato e ne curino il trasferimento, il trasloco, la spedizione di merce, mobilio o d’altro”[322]. Per lo meno a Bologna un’azienda di trasporti e depositi denunciò di avere nei propri magazzini le masserizie di due ebrei (emigrati nel 1939)[323].

Pressoché in tutte le province vennero istituiti uffici appositi per la raccolta delle denunce, l’accertamento di ulteriori beni, la preparazione dei decreti di sequestro, l’organizzazione della gestione dei beni. Dal febbraio 1944 questi uffici operarono con riferimento al nuovo dlg 2/1944 (2.a.3.1). Non pochi di essi agirono –prima e/o dopo il febbraio 1944- al di fuori dei criteri fissati dalla normativa della Rsi (2.a.4.1).

2.a.2.2 La formale estensione agli enti ebraici delle disposizioni di sequestro avvenne con l’ordine del 28 gennaio 1944 del capo della polizia ai capi delle province: “tutte le Comunità israelitiche siano sciolte e i beni vengano sottoposti a sequestro”[324] (vedi anche 2.a.3.2). Sette giorni dopo il capo della polizia ordinò di indagare sulla “sorte” delle opere artistiche “che si trovavano nelle sinagoghe”[325].

In almeno un caso (Venezia) il capo della provincia emanò un decreto di sequestro simile a quelli disposti nei confronti delle persone fisiche a seguito dell’ordine del 30 novembre 1943 (2.a.2.1), e quindi contenente la precisazione: “Ritenuto che la Comunità Israelitica di Venezia è di razza ebraica e quindi considerata nemica”[326]. In almeno un caso (Modena) il capo della provincia emanò un decreto di confisca simile a quelli disposti nei confronti delle persone fisiche a seguito del dlg 2/1944 (2.a.3.1), e quindi contenente la precisazione: “Accertato che l’Università Israelitica di Finale Emilia appartiene alla razza ebraica ai sensi dell’art. 8 del dl 17 novembre 1938, n. 1728”[327].

2.a.2.3 Dopo la pubblicazione del decreto legislativo 2/1944 che stabiliva la confisca dei beni degli ebrei (2.a.3.1) i capi delle province avrebbero dovuto procedere alla trasformazione dei sequestri in confische. Il Ministero delle finanze lo considerava un atto ovvio già nella prima circolare attuativa del dlg 2/1944 diramata il 12 febbraio (“i fermi e i sequestri operati da parte dei Capi delle Province o da parte delle Questure a seguito dell’ordinanza 1° dicembre [sic!] 1943 del Ministero dell’Interno resteranno in vigore fino a quando l’EGELI non avrà preso possesso dei beni o delle aziende cui si riferiscono in base ai decreti che saranno emessi ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo in questione”)[328], e il 20 aprile ordinò esplicitamente ai capi delle province di provvedere in tal senso entro il 25 maggio[329]. Tuttavia in vari casi ciò non avvenne o avvenne con grande ritardo (2.a.4.1).

2.a.2.4 Aderendo a una proposta del Ministero delle comunicazioni, il 23 dicembre 1943 il Ministero dell’interno invitò i capi delle province ad affidare alla Gestione speciale viveri delle Ferrovie dello Stato “La Provvida” la gestione delle aziende di generi alimentari o tessili sequestrate ad ebrei o requisite per altri motivi, ciò al fine di una distribuzione “a equi prezzi e con particolare riguardo popolazione più bisognosa come sinistrati, sfollati, impiegati trasferiti alta Italia”[330]. Per lo meno in tre province tale affidamento non era ancora stato attuato alla fine di febbraio 1944 e tutto lascia presumere che non lo fu neanche in seguito[331]; mentre esso era stato attuato sin dall’inizio dell’anno per lo meno a Verona (città sede de “La Provvida”)[332].

Peraltro vari capi delle province disposero con immediatezza, sulla base di quanto previsto dalla legge di guerra, la liquidazione proprio di questo tipo di aziende (quello di Grosseto emanò il relativo decreto il 30 dicembre 1943)[333].

2.a.2.5 Per lo meno a Siena e a Grosseto il capo della provincia nominò sequestrataria delle aziende agrarie di ebrei la locale Unione dei lavoratori dell’agricoltura[334]. Il 6 dicembre 1943 la Confederazione lavoratori dell’agricoltura invitò le sedi provinciali ad attuare nelle aziende di proprietà di ebrei, in quelle di proprietà nemica o malcondotte e nei latifondi la nuova politica di socializzazione stabilita alla recente assemblea di Verona[335] (vedi anche 2.a.3.10).

2.a.2.6 Il 21 gennaio 1944 il Ministero dell’economia corporativa segnalò ai capi delle province “l’opportunità” che, dopo il sequestro, “la vendita di pelli da pellicceria sia grezze che conciate” fosse effettuata da “Enti od organismi costituiti e controllati dalle organizzazioni sindacali”[336].

2.a.2.7 Il 22 maggio 1944 l’associazione delle vittime dei bombardamenti chiese ai capi delle province di segnalare l’eventuale esistenza, “specialmente fra le proprietà degli ebrei sottoposte a sequestro”, di locali da adibire a convalescenziari[337].

2.a.3.1 Il 4 gennaio 1944 venne varato il decreto legislativo n. 2 Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica. Relativamente a quanto comunicato e dichiarato in novembre (2.a.1.3) e ufficialmente annunciato il 30 novembre (2.a.2.1), va osservato che il dlg 2/1944 dispose la confisca dei beni e che il Consiglio dei ministri del 16 dicembre 1943 aveva sospeso l’esame di due provvedimenti del ministro dell’Economia corporativa sulle aziende commerciali e industriali di ebrei e sull’Egeli, entrambi imperniati (similmente a 2.a.1.5) sul sequestro[338]. Il dlg 2/1944 fu quindi il prodotto di una complessa elaborazione; anche il presidente e gli uffici dell’Egeli vi avevano “attivamente collaborato”[339].

Il dlg 2/1944 venne pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale d’Italia” datata 10 gennaio ed entrò formalmente in vigore in tale data (anche se la “Gazzetta” o comunque il testo del dlg vennero diffusi alla fine di quel mese).

Il decreto concerneva tutti i beni di tutte le persone fisiche classificate “di razza ebraica” a norma del rdl 1728/1938, sia italiane, anche se discriminate, sia straniere, anche se non residenti nella Rsi.

Esse non potevano possedere nel territorio della Rsi “aziende di qualunque natura […] terreni […] fabbricati […] titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie […] altri beni mobiliari di qualsiasi natura” (art. 1), senza alcuna eccezione relativamente al valore o alle caratteristiche dei “beni”.

Il decreto inoltre dichiarava nulli tutti i trasferimenti di proprietà avvenuti dopo il 30 novembre 1943 e prevedeva la possibilità di dichiarare nulli quelli effettuati precedentemente e qualificabili come “fittizi”, con particolare ma non esclusivo riferimento alle donazioni di beni immobili effettuate ai sensi dell’art. 6 del rdl 126/1939 (art. 6) (successivamente fu precisato che a queste ultime dovevano essere affiancate le donazioni di aziende non azionarie effettuate ai sensi dell’art. 55 del rdl 126/1939 e che occorreva “rivedere tutte le donazioni di cui si tratta al fine di dichiarare valide soltanto quelle […] risolte […] in un reale e definitivo spossessamento dell’ebreo donante”[340]).

In termini operativi, coloro che avevano debiti verso gli ebrei o ne detenevano “beni di qualsiasi natura” dovevano dichiararlo al capo della provincia entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge (art. 2; il termine, corrispondente al 9 febbraio, venne in seguito posticipato al 29 febbraio); il capo della provincia emetteva un decreto col quale li confiscava a favore dello Stato e li trasferiva per la custodia, l’amministrazione e la vendita all’Egeli (l’Ente di gestione e liquidazione immobiliare creato nel 1939), a sua volta autorizzato a delegare le proprie mansioni a un Istituto di credito fondiario (2.a.3.5) (art. 7, 11-13). L’Egeli, o l’Istituto delegato, aveva il compito di chiedere il “rilascio immediato” del bene (art. 8).

Il decreto disponeva che le somme ricavate dalle vendite venissero “versate allo Stato a parziale ricupero delle spese assunte per assistenza, sussidi e risarcimento di danni di guerra ai sinistrati dalle incursioni aeree nemiche” (art. 15); mentre il testo dell’ordine del 30 novembre 1943 poteva lasciar comprendere che dette somme sarebbero state versate direttamente (e forse dalle stesse autorità locali) agli “indigenti sinistrati” (2.a.2.1).

Stabiliva infine dure pene contro chi avesse omesso di fare le denunce prescritte dall’art. 2 (art. 16; la pena era l’arresto fino a tre mesi e un’ammenda fino a L 30.000) e contro chi avesse compiuto “atti diretti all’occultamento, alla soppressione, alla distruzione, alla dispersione, al deterioramento o alla esportazione dal territorio dello Stato di cose appartenenti a persone di razza ebraica” (art. 17; la pena era la reclusione fino a un anno –o fino a sei mesi, “se il fatto è commesso dal proprietario”- e una multa da L 3.000 a L 30.000)[341].

Molti articoli del decreto riproducevano quanto stabilito dalla legge di guerra relativamente ai beni dei nemici, salvo la decuplicazione degli importi delle pene monetarie e alcuni adattamenti determinati in particolare dal fatto che i beni dei nemici dovevano essere sequestrati e non confiscati; in particolare gli articoli 2 e 6 del nuovo decreto erano basati sugli articoli 309 e 312 del rd 1415/1938 e sull’articolo 1 della l 1994/1940, e gli articoli 16 e 17 sugli articoli 347 e 348 del rd 1415/1938.

Il 26 gennaio 1944 il direttore dell’associazione delle banche inviò il testo del decreto al direttore di una delle maggiori associate, pregandolo di farne un “uso del tutto riservato” poiché “la Gazzetta Ufficiale del 7 [sic!] gennaio non resulta ancora pubblicata”[342]. Il 27 gennaio il ministro delle Finanze avvisò per telegrafo i capi delle province dell’esistenza del provvedimento, del ritardo della diffusione della “Gazzetta” e della posticipazione al 29 febbraio della scadenza per le dichiarazioni dei detentori[343]. Il 29 gennaio l’agenzia di stampa Stefani diramò un dispaccio contenente ampi stralci del dlg 2/1944 (e menzionante la “Gazzetta”); la stampa quotidiana ne dette notizia il giorno dopo[344].

Qualche giorno dopo il ministro delle Finanze inviò ai capi delle province agli intendenti di finanza e ad altri destinatari una lunga circolare a stampa (n. 4032/B del 12 febbraio 1944), contenente il testo del decreto e numerose precisazioni[345].

Essa avvertiva che la normativa italiana per la determinazione della “appartenenza alla razza ebraica” doveva essere utilizzata anche per gli stranieri “appartenenti agli Stati che non abbiano adottato provvedimenti razziali”.

Inoltre regolamentava la trasmissione ai capi delle province (talora tramite le intendenze di finanza) di tutti i dati patrimoniali già raccolti da qualsiasi ufficio o ente pubblico in occasione dell’applicazione dell’ordine del 30 novembre 1943 (2.a.2.1) o dell’attuazione delle norme sui beni immobili e sulle aziende disposte dal rdl 126/1939; autorizzava i capi delle province a dare in consultazione a uffici pubblici e istituti di credito e assicurativi gli elenchi nominativi degli ebrei; avvisava che i “titoli, depositi e valori” confiscati presso istituti di credito dovevano rimanere “conservati” negli stessi, con apposito vincolo.

Essa specificava che erano da confiscare anche i certificati consegnati dall’Egeli negli anni precedenti in cambio delle quote “eccedenti” di proprietà immobiliare o delle aziende “non conservabili”.

Infine dettava alcune norme relativamente alla confisca di determinati oggetti (vedi 2.a.3.8).

Nel caso di beni posseduti in comune da persone “di razza ebraica” e “di razza ariana”, la confisca colpiva solo le quote registrate a nome dei primi. Poiché nel caso di libretti di risparmio la divisione in quote sovente non era precisata, il Ministero delle finanze e la Confederazione fascista delle aziende del credito e della assicurazione, d’intesa con l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, concordarono di considerare il libretto come appartenente in quote uguali ai vari cointestatari, a meno che il cointestatario “ariano” denunciasse che la quota dell’ebreo era superiore a quella presunta (nel caso in cui, invece, egli denunciasse che la quota di questi era inferiore, fu deciso di “te[ner] conto, salvo in quest’ultimo caso la prova contraria, di tali quote presunte”)[346].

2.a.3.2 Il 16 aprile 1945 il Consiglio dei ministri approvò lo schema di un decreto legislativo (poi non emanato a causa della sopravvenuta sconfitta definitiva del fascismo) che ratificava lo scioglimento delle Comunità ebraiche disposto il 28 gennaio 1944 (2.a.2.2), trasformando in confisca il sequestro dei loro beni ed estendendo le misure agli enti ebraici di assistenza e beneficenza. Anche in questo caso venivano previste dure pene contro chi avesse compiuto “atti diretti all’occultamento, alla soppressione ecc.”[347].

Nel frattempo l’11 ottobre 1944 il ministro dell’Interno aveva ordinato di inviare all’Ispettorato generale per la razza “tutti gli archivi confiscati alle comunità israelitiche, alle sinagoghe e eventuali privati”[348].

2.a.3.3 Il dlg 29 giugno 1944, n. 501, Norme integrative e modificative per la nominatività dei titoli azionari regolamentò tra l’altro l’obbligo per i possessori di azioni nominative di dichiarare alle società anonime la propria “razza” e quello per le società di trasmettere tali informazioni allo Schedario generale dei titoli azionari[349]. E’ probabile che nessun perseguitato abbia adempiuto a tale obbligo.

Peraltro i certificati azionari posseduti da ebrei venivano comunque rintracciati –e confiscati- nei loro depositi bancari e nelle loro abitazioni. Le stesse società anonime erano già tenute, in base al dlg 2/1944 (2.a.3.1), ad attivare il meccanismo della confisca segnalando alle prefetture gli azionisti ritenuti ebrei. Date le difficoltà prospettate da alcune società relativamente alla loro identificazione (gli azionisti potevano essere decine di migliaia e potevano risiedere in molte province, comprese tra l’altro quelle non controllate dalla Rsi; una società denunciava di essere riuscita od ottenere copia degli elenchi degli ebrei solo da sedici prefetture, ecc.), il Ministero delle finanze propugnò dapprima “un’urgente pubblicazione dell’elenco generale delle persone di razza ebraica residenti in Italia” (luglio 1944) e poi “un concentramento degli elenchi provinciali degli appartenenti alla razza ebraica presso determinate prefetture che potrebbero essere le seguenti: Torino, Genova, Milano, Verona” (dicembre 1944); entrambe le proposte vennero però respinte dall’Ispettorato generale per la razza, che rispose costantemente che l’elenco avrebbe potuto essere pubblicato solo dopo le “nuove leggi razziali” da esso auspicate e che spettava alle società anonime inviare alle prefetture copie degli elenchi degli azionisti, chiedendo di controllarli (agosto 1944 e marzo 1945)[350].

Per un caso di aumento di capitale sociale assegnato in opzione ai vecchi azionisti e comportante per essi l’obbligo di dichiarare la “razza” (forse in connessione al dlg 2/1944 (2.a.3.1) e non già al dlg 501/1944), vi è testimonianza della rinuncia all’opzione da parte di un vecchio azionista ebreo (la società aveva deliberato l’aumento il 9 novembre 1943, stabilendo l’esercizio del diritto di opzione dal 20 luglio al 4 agosto 1944; la dichiarazione della “razza” era richiesta nei moduli approntati a ridosso di questo periodo per l’esercizio di tale diritto; la questione fu poi sistemata nel dopoguerra)[351].

2.a.3.4 Il 1° aprile 1944 il ministro delle Finanze osservò che il nuovamente annunciato decreto legislativo sul sequestro dei beni artistici (2.a.1.5) era ormai superato dal dlg 2/1944, concernente tutti i beni e disponente la loro confisca generalizzata. Egli pertanto proponeva alla Presidenza del consiglio dei ministri e al Ministero dell’educazione nazionale di soprassedere dalla pubblicazione del nuovo decreto e di ordinare ai capi delle province di “disporre [nei decreti di confisca] che le opere d’arte siano affidate per la custodia ai Sovraintendenti alle Gallerie”[352]. Il 7 luglio 1944 il ministro per l’Educazione nazionale informò questi ultimi che il dlg 2/1944 aveva “reso superflua la pubblicazione del Decreto Legislativo già annunciato” e li invitò a “fare una rapida ricognizione delle opere d’arte confiscate e date in amministrazione agli Enti di gestione dei beni ebraici”[353]. Il 5 settembre il Ministero delle finanze informò l’Egeli (il quale informò gli istituti gestori) che, a seguito della proposta del Ministero dell’educazione nazionale, le “cose immobili e mobili” confiscate agli ebrei e il cui interesse artistico o storico fosse stato già oggetto di “notifica” al Ministero dell’educazione nazionale, ai sensi della l 1089/1939 sul patrimonio artistico, dovevano essere in ogni caso escluse dalla vendita e, se richieste dal Ministero dell’educazione nazionale, dovevano essere date in consegna alla Direzione delle arti di quest’ultimo[354].

2.a.3.5 Gli Istituti gestori delegati dall’Egeli (vedi 2.a.3.1) erano parzialmente mutati rispetto agli anni 1939-1943, a causa del restringimento dell’area di interesse (che non comprendeva più le regioni meridionali e insulari, alcune province centrali, i territori già italiani della penisola balcanica, le province delle zone di operazione Prealpi e Litorale adriatico) e del frazionamento delle competenze in Emilia e Lombardia. Il 13 settembre 1944 essi erano: Credito fondiario dell’Istituto San Paolo di Torino (Piemonte e Liguria); Credito fondiario della Cassa di risparmio delle provincie lombarde (Lombardia, tranne Mantova e Cremona); Banca agricola mantovana (Mantova); Banca popolare di Cremona (per quella provincia; ma vedi 2.a.4.1); Istituto di credito fondiario delle Venezie in Verona (Veneto, tranne Belluno); Cassa di risparmio di Piacenza (per quella provincia); Cassa di risparmio di Parma (per quella provincia); Cassa di risparmio di Reggio Emilia (per quella provincia); Cassa di risparmio di Modena (per quella provincia); Credito fondiario della Cassa di risparmio di Bologna e Monte di Bologna (rispettivamente per i fabbricati e i terreni di quella provincia); Cassa di risparmio di Forlì (per quella provincia); Istituto federale di credito agrario per la provincia di Ferrara (per quella provincia; ma vedi 2.a.4.1); Credito fondiario del Monte dei paschi di Siena (Toscana)[355]. Per la provincia di Ravenna, ove vi erano pochi beni di ebrei e vi furono poche confische, non venne mai individuato un Istituto gestore[356]. Per le province del Lazio e per quelle di Marche, Umbria e Abruzzi, assegnate nel 1939 rispettivamente all’Istituto italiano di credito fondiario e al Credito fondiario della Banca nazionale del lavoro, non vi è attestazione di loro nuovi interventi ai sensi del dlg 2/1944.

2.a.3.6 Anche i decreti di confisca venivano pubblicati sulla “Gazzetta ufficiale d’Italia” ed elencavano tutti i beni posseduti dall’ebreo: aziende, terreni, fabbricati, crediti vari, valori depositati nelle banche, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario, spazzolini da denti, ecc. Verso la fine di aprile 1944 il ministro dell’Educazione nazionale segnalò alla Presidenza del consiglio dei ministri che la lettura di decreti di confisca elencanti “2 paia di calze usate”, o “1 bandiera nazionale, 1 bidè, 1 enteroclisma”, o ancora “una maglia di lana fuori uso, 3 mutandine usate sporche” ecc., suscitava “negativi apprezzamenti”; il 25 giugno la Presidenza del consiglio stabilì che detti decreti venissero pubblicati in un supplemento ordinario quindicinale della “Gazzetta”[357] (il secondo gruppo di “beni” era compreso in un decreto pubblicato il 18 aprile concernente il rabbino capo di Genova Riccardo Pacifici, egli nel frattempo era stato arrestato il 3 novembre 1943, deportato ad Auschwitz il 6 dicembre e ivi ucciso all’arrivo l’11 dicembre). Il primo supplemento venne pubblicato il 6 settembre. Nel frattempo i ministeri competenti avevano avvisato i capi delle province che “una elencazione molto particolareggiata dei beni […] non appare assolutamente opportuna” e che “la descrizione di tali oggetti è troppo dettagliata e minuziosa, sì da comprendere indumenti intimi: oggetti di scarsissimo valore o strettamente personali e tali che la enunciazione può determinare e determina commenti che sarebbe bene evitare”[358].

2.a.3.7 Il 28 marzo 1944 il Ministero delle finanze chiese alle intendenze di finanza e all’Egeli l’invio di riepiloghi mensili dei decreti di confisca, con separazione dei beni mobili da quelli immobili e con evidenziazione delle aziende industriali e commerciali[359]. Il 26 aprile 1944 l’Egeli chiese al ministero copia delle relazioni periodiche delle intendenze[360]. Sempre dal maggio 1944, l’Egeli inviava mensilmente all’Ispettorato generale per la razza “copia della situazione statistica dei beni ebraici confiscati”[361].

L’Egeli aveva registrato 3.238 decreti di confisca al 31 luglio 1944[362], 5.375 al 27 novembre 1944[363], 7.847 “fino all’aprile 1945”[364]. Questi totali non comprendevano i decreti di sequestro e non concernevano le Zone di operazione Prealpi e Litorale adriatico; inoltre ovviamente non comprendevano i decreti di confisca non pervenuti all’Egeli o da esso non ancora registrati.

Dei 7.116 decreti pervenuti all’Egeli fino all’aprile 1945 dalle province del settentrione (sempre escluse le due Zone), 2.794 concernevano beni immobili e mobili (terreni, immobili, arredamenti, vestiario, oggetti personali, ecc.), 4.115 depositi presso terzi (quasi tutti presso istituti di credito), 207 aziende (industriali, commerciali, partite di merci varie)[365].

2.a.3.8 Il dlg 2/1944 stabiliva la confisca di “tutti” i beni. La circolare applicativa del ministro delle Finanze del 12 febbraio 1944 (2.a.3.1) dettò le seguenti disposizioni relativamente ai beni di minimo valore e oggetti personali: “Poiché tra i beni da sottoporre a confisca sono compresi degli oggetti di vestiario, biancheria, coperte, come pure della merce deperibile, spesso in piccola quantità o per valori modesti, la cui custodia e conservazione importerebbe una spesa non proporzionata al loro valore, si autorizza l’EGELI ad alienare alle migliori condizioni quegli oggetti o merci che, a giudizio dell’Ente stesso, non appaia opportuno conservare, salvoché il Capo della Provincia non autorizzi di lasciarli in uso agli interessati. Qualora la vendita sia difficile, l’EGELI consegnerà tali oggetti e merci di cui si renda troppo onerosa la conservazione all’Ente Comunale di Assistenza”[366]. Una circolare del 3 maggio dello stesso ministro confermò quanto sopra, precisando che i beni (tra i quali erano ora esplicitamente inseriti gli “oggetti personali”, le masserizie e le “provviste di commestibili” ed esplicitamente esclusi gli arredamenti di appartamenti affittabili e le merci di aziende) destinati agli enti di assistenza dovevano essere formalmente acquistati dalle prefetture sulla base di una vera e propria stima e che il relativo prezzo doveva essere inserito nel provvedimento di confisca, e autorizzando inoltre gli stessi capi delle province a consegnare agli enti di beneficenza gli “oggetti usati” e le “provviste di commestibili”[367].

Nell’agosto 1944 il capo della provincia di Vicenza venne autorizzato dal Ministero delle finanze a cedere gratuitamente al locale Ente assistenza profughi vestiario, oggetti da cucina e valigie confiscati a ebrei nel frattempo resisi irreperibili[368]. Non sono documentati casi di oggetti lasciati in uso a ebrei che non fossero coniugati con “ariani”, ospedalizzati o ultrasettantenni (se non già internati e deportati).

2.a.3.9 L’ordine di sequestro del 30 novembre 1943 concerneva “tutti i […] beni” degli ebrei (2.a.2.1), il dlg 2/1944 specificava che la confisca concerneva anche i “crediti” (2.a.3.1); entrambe le dizioni comprendevano le pensioni. Il 13 gennaio 1944 la Direzione generale del tesoro chiese alla Ragioneria generale dello Stato se l’ordine del 30 novembre concerneva anche le pensioni; il 30 gennaio il ragioniere generale indirizzò al ministro delle Finanze un pro-memoria nel quale prospettava –ormai sulla base del dlg 2/1944- una risposta negativa, in considerazione del fatto che le pensioni dello Stato e di altri Enti pubblici o parastatali “rappresentano un assegno di carattere alimentare anziché un reddito di beni patrimoniali”. Avendo il ministro delle Finanze manifestato parere opposto, il 6 febbraio il ragioniere generale rispose alla Direzione generale del tesoro di “sospe[ndere] il pagamento delle pensioni assegnate a persone di razza ebraica”; questa diramò una circolare in tal senso firmata dal ministro il 26 febbraio 1944[369]. Intanto il 30 marzo il ministro delle Finanze interpellò l’Ispettorato generale razza e demografia (che sembrava dovesse essere istituto presso la Presidenza del consiglio dei ministri[370]) in ordine alla possibilità di demandare ai capi delle province la possibilità di decidere in merito alla corresponsione agli ebrei di determinate pensioni o quote di depositi, riscontrando il 5 maggio dal neoistituito Ispettorato generale per la razza un parere sostanzialmente positivo[371]; così nella circolare diramata il 13 maggio 1944 il ministro delle Finanze consentì ai capi delle province di “autorizzare che sia ripreso a favore dell’ebreo titolare o dei suoi familiari il pagamento […] in tutto od in parte” di pensioni mensili e vitalizi, e di “modeste quote mensili” delle indennità di licenziamento e dei depositi bancari e postali; ciò in via “provvisoria”, “su documentata domanda degli interessati”, seguendo “un criterio strettamente alimentare” e “dopo accurato esame delle singole situazioni”[372]. Il 15 maggio intervenne sul tema una circolare dello stesso ispettore generale per la razza (poi inoltrata il 19 maggio dal ministro dell’Interno ai capi delle province) segnalante “l’opportunità […] che vengano esclusi dalla confisca le somme, i valori e, in genere, le cose mobili indispensabili per la vita”, ivi comprese le pensioni e le indennità a “carattere essenzialmente alimentare”, e “caso per caso e con prudente apprezzamento […] parte dei beni mobili”[373]. Sulla titolarità a decidere tali “concessioni” e sulla differenza tra esclusione generalizzata dalla confisca e sospensione in alcuni casi degli effetti di essa, si sviluppò un acceso dibattito tra Ispettorato e Ministero delle finanze, sfociato il 9 ottobre 1944 in una lettera del sottosegretario alla Presidenza del consiglio che invitava l’Ispettorato a prendere sempre “preventivi accordi” con le Finanze, tenendo comunque presente che la Presidenza stessa “è del parere che si possa addivenire […] a temperamenti, caso per caso”[374]; e apparentemente concluso il 27 dicembre 1944 con l’affermazione del Ministero che, essendo la circolare dell’Ispettorato “posteriore” a quella delle Finanze, “quest’ultima deve intendersi superata”[375].

Per lo meno i capi della provincia di Venezia e Siena, sulla base della circolare dell’Ispettorato (il primo dei due fece anche riferimento alle direttive del Ministero delle finanze, ma al dunque applicò la prima), ordinarono il 29 maggio e il 14 giugno 1944 alle locali intendenze di finanza di riattivare i pagamenti di tutte le pensioni dello Stato[376]. Per lo meno i capi della provincia di Bologna, Genova, Perugia, Rovigo, Varese applicarono in alcuni casi le direttive del Ministero delle Finanze (il capo della provincia di Genova così motivò un provvedimento: “L’autorizzazione è stata concessa in considerazione del carattere alimentare della pensione, non risultando l’O.. proprietario di altri beni di qualsiasi natura e della circostanza che lo stesso è coniugato con ariana”[377].

I documenti qui illustrati concernono solo la questione della corresponsione delle pensioni da parte della Rsi, e non contengono alcun riferimento diretto o indiretto al fatto che i percettori delle stesse o erano già stati arrestati (dalla stessa Rsi o dal Terzo Reich) e avviati ad Auschwitz o erano impegnati a occultare sé stessi e ad annullare i propri dati anagrafici.

2.a.3.10 Le aziende agrarie continuarono ad essere al centro di varie attenzioni (vedi anche 2.a.2.5). Il 31 marzo 1944 la Presidenza del consiglio dei ministri chiese ai capi delle province il numero e la superficie di quelle appartenenti “ad ebrei oppure ad altri traditori”[378]. Il 16 marzo la prefettura di Venezia aveva ricevuto dalla Presidenza del consiglio un telegramma circolare che affidava al Ministero dell’agricoltura e delle foreste la decisione finale in merito alla nomina dei sequestratari delle aziende agricole, senza che peraltro fosse specificato se di ebrei e/o di altri,[379] e il 5 aprile lo stesso ministro ribadì tale principio ai capi delle province[380]; l’Egeli, il Ministero delle finanze e l’Ispettorato generale per la razza respinsero però decisamente la possibilità di applicarlo alle aziende di ebrei (tra l’altro ormai in via di essere confiscate e non più sequestrate)[381].

Il 14 maggio 1944 la Presidenza del consiglio dei ministri invitò i capi delle province ad agevolare l’indagine dell’Opera nazionale combattenti sulla “possibilità accoglimento famiglie coloniche e profughe et sfollati” nelle aziende agrarie confiscate agli ebrei[382]; contemporaneamente la seconda propose di modificare il dlg 2/1944 in modo da essere autorizzata a gestire e poi anche ad acquistare dette aziende, nel gennaio 1945 tale progetto legislativo costituiva ancora oggetto di discussione tra la Presidenza del consiglio dei ministri e il Ministero delle finanze[383]. Il 23 maggio 1944 l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale si propose come acquirente delle “proprietà rustiche” confiscate, da utilizzare per la produzione di derrate alimentari per i suoi ospedali-sanatori per tubercolotici, e rimarcò che “i beni ex ebraici che verranno in nostra proprietà diverranno in realtà beni dei lavoratori italiani”[384]. Il 17 marzo 1945 si tenne la prima riunione della Sottocommissione per lo studio particolare della socializzazione delle aziende agrarie (facente capo alla Commissione per lo studio delle norme di applicazione della legge sulla socializzazione delle aziende ebraiche, della quale non si conoscono particolari), vi presero parte rappresentanti del Ministero del lavoro, del Ministero dell’agricoltura, della Confederazione unica, dell’Alleanza cooperativa e dell’Egeli[385].

2.a.3.11 Dei 7.847 decreti di confisca pervenuti all’Egeli (vedi 2.a.3.7), 220 concernevano aziende[386]. Il valore è notevolmente inferiore a quello delle aziende di categoria c) accertate nel 1939 per i soli ebrei italiani non discriminati (circa 1.000 in Italia settentrionale, escluse le due Zone di operazione istituite nel 1943, e circa 500 in Toscana e Marche, ove però la gran parte delle ditte fu solo sequestrata e non anche confiscata)[387]; le cause principali della diminuzione sembrano essere state: le numerose cessioni e chiusure causate nel 1939-1943 dalla persecuzione, il fatto che determinati tipi di ditte in realtà non detenevano beni confiscabili, l’inutilità di procedere a decreti di confisca per negozi e magazzini già svuotati dai proprietari o già visitati dai ladri, il fatto che i capi delle province avevano già proceduto alla liquidazione delle aziende sequestrate in base all’ordine del 30 novembre 1943 (2.a.2.4)

L’Egeli procedette a un’effettiva presa di possesso delle aziende in 92 casi[388] e, effettuate le numerose vendite decise da essa stessa[389] (“per un importo totale periziato di circa 4 milioni, con un realizzo di circa il doppio di tale importo”[390]) e le vendite decise da altri prima dell’inizio della sua gestione (caso verificatosi in particolare a Mantova, il cui capo della provincia aveva ottenuto dal Ministero delle finanze il permesso di “immettere sollecitamente al consumo” la merce trovata nei negozi di ferramenta e tessuti[391]), conservò la gestione effettiva di 22 aziende[392]. Per esse vennero esaminati progetti di socializzazione consistenti sia nella cessione in proprietà ai dipendenti sia nella compartecipazione di questi alla gestione e agli utili, senza peraltro giungere a operare interventi sostanziali[393].

Le aziende gestite dall’Egeli andavano dalla cartiera Vita Mayer di Varese, con circa mille dipendenti, ad alcune farmacie[394].

2.a.3.12 Per quanto concerne i beni immobili confiscati, la Rsi non procedette a vendite: il 7 marzo 1945 l’Egeli scrisse al Credito fondiario dell’Istituto San Paolo di Torino che “il Ministero delle finanze non ritiene opportuno, salvo casi eccezionali, che si addivenga alla vendita di beni ebraici immobiliari”[395] e l’Egeli dopo la guerra relazionò che “dalla fine del 1943 fino all’aprile 1945 non vi furono quindi variazioni nel complesso dei beni assegnati all’Egeli in base alla legge del 1939 [rdl 126/1939], all’infuori della vendita di un immobile in Venezia. […] L’Egeli seguì anche nella amministrazione dei beni ebraici confiscati il criterio della massima tutela conservativa, e non effettuò alcuna vendita”[396].

2.a.3.13 Per quanto concerne i depositi bancari, i titoli di Stato, le azioni e i crediti verso terzi confiscati, l’Egeli scrisse in una relazione postbellica di aver autorizzato solo “la vendita parziale di titoli […] depositati in garanzia di apertura di credito garantito, per addivenire alla estinzione del credito” e “piccoli prelievi” da depositi bancari per il “pagamento di imposte arretrate e scadute”[397].

2.a.3.14 I depositi negli Istituti di credito erano stati lasciati in custodia presso questi ultimi, anche dopo la confisca (2.a.3.1). Il 15 giugno 1944 il capo della polizia sollecitò i capi delle province toscane (eccettuate quelle di Grosseto ed Arezzo) a completare il sequestro o la confisca dei beni degli ebrei e a trasferire “preziosi e depositi e titoli giacenti banche at istituti depositari Italia Nord”[398]. Il 23 giugno (ossia quando l’avanzata degli Alleati aveva liberato Grosseto e Perugia e si avvicinava a Macerata) il ministro delle Finanze telegrafò ai capi delle province di ordinare agli Istituti di credito di trasferire al nord, con la “massima urgenza”, i “titoli, danaro, preziosi” confiscati agli ebrei. I depositi del Veneto (tranne Belluno), di Ferrara, Ravenna e Pesaro dovevano essere trasferiti a Verona ; quelli della Lombardia, dell’Emilia Romagna (escluse le due province già menzionate), della Toscana (tranne Grosseto) e di Ancona dovevano essere trasferiti a Milano; quelli del Piemonte e della Liguria a Torino. Le banche dovevano inviarli alla propria filiale, se esistente, o a un Istituto di credito corrispondente o all’Istituto già delegato dall’Egeli (rispettivamente: Istituto di credito fondiario delle Venezie in Verona, Cassa di risparmio delle provincie lombarde, Credito fondiario dell’Istituto San Paolo di Torino)[399]. L’11 luglio 1944 il Ministero delle finanze telegrafò ai capi delle province (i precedenti, tranne quelli di Ancona, Arezzo, Siena e Livorno, già liberate o ritenute in procinto di esserlo) che il trasferimento concerneva “anche valori sequestrati aut comunque bloccati purché aventi tutti requisiti per essere poi sottoposti regolare decreto confisca”[400]. Avendo l’Egeli segnalato il 9 aprile 1945 che “molti Istituti non hanno ottemperato alla disposizione ministeriale, o vi hanno ottemperato solo parzialmente (trasferimento dei titoli e non dei depositi in conto corrente e a risparmio)”[401], il 20 aprile 1945 il ministro delle Finanze telegrafò ai capi delle province di “controllare personalmente avvenuta applicazione dette circolari, provvedendo at eliminare massima energia eventuali resistenze aut ingiustificati indugi”[402].

Tra il luglio e l’ottobre 1944 la Banca commerciale italiana trasferì alle proprie sedi di Torino, Milano e Verona i depositi delle filiali di Novara, Genova e Sanremo, di Varese, Brescia, Mantova, Pavia, Piacenza, Modena e Bologna, di Padova e Vicenza, e trasferì all’Istituto delegato di Verona i depositi della filiale di Venezia[403]. Il Banco di Roma trasferì alle proprie sedi di Milano e Verona i depositi delle filiali di Piacenza e Bologna e di Padova e Venezia[404].

2.a.4.1 L’applicazione dei decreti di sequestro e di confisca e la gestione dei sequestri dettero luogo in vari casi a irregolarità o illegittimità (rispetto alla legge della Rsi) da parte di autorità centrali e locali dello Stato. Alcune di esse vengono qui sommariamente esemplificate.

Relativamente all’illegittimità (rispetto alla normativa della Rsi), vi sono alcune vicende che conducono direttamente a responsabilità del ministro dell’Interno o di suoi immediati sottoposti. A Como, in vari casi, i preziosi e i valori prelevati agli ebrei arrestati nella provincia o sul confine italo-svizzero e consegnati al capo della provincia, vennero da questi conservati, sottoposti a formale confisca e poi fatti consegnare il 6 giugno 1944 non all’Egeli o a un Istituto gestore, bensì (raccolti in 23 plichi) alla Direzione generale della pubblica sicurezza dislocata a Valdagno[405]. Nel marzo 1944 alcuni agenti di pubblica sicurezza, “distaccati dal Ministero dell’Interno sede di Maderno” (ovverosia dalla sede centrale del ministero) prelevarono dal deposito di una ditta ebraica in provincia di Novara “quantità rilevanti di tessuti e confezioni per l’ammontare di diversi milioni”[406]. Il 1° dicembre 1943, nel deposito di una ditta ebraica a Maderno, i carabinieri sequestrarono 26.846 paia di calze e 1.900 paia di guanti per uomo, donna e bambino, del valore di circa un milione di lire; “successivamente [come riferì il commissario prefettizio del comune al capo della provincia di Brescia], d’ordine dell’Ecc. il Ministro dell’Interno, il quantitativo di merce sequestrata fu consegnato all’Ufficio Speciale di PS, dipendente dal Gabinetto del Ministero, che provvide alla distribuzione a pagamento delle calze al PFR, al Ministero dell’Interno e alla popolazione in misura maggiore”; avendo il capo della provincia chiesto al Ministero di “trasmettere con cortese urgenza la somma ricavata dalla vendita” per procedere alla sua confisca, il ministro dell’Interno in persona gli rispose il 22 aprile 1944 che la “somma” (mai quantificata) era stata “superiormente destinata alle famiglie di Caduti in seguito ad attentati politici” (categoria, per quel che può valere, non menzionata né nell’ordine del 30 novembre (2.a.2.1), né nel dlg 2/1944 (2.a.3.1), né in altri testi normativi della Rsi di cui egli era ministro)[407].

Verso la fine del 1943 una persona di Mantova segnalò alla polizia della città o direttamente a dirigenti centrali del Ministero dell’interno il luogo ove alcune famiglie ebree avevano nascosto i propri beni prima di rifugiarsi in Svizzera (l’informatore il 14 luglio 1944 scrisse direttamente a Mussolini per avere un premio, questo gli venne accordato nel febbraio 1945 per l’ammontare di L. 25.000 – da prelevarsi dai beni nel frattempo confiscati-, il 9 marzo egli si recò in banca per il ritiro della somma, senza però effettuarlo perché non avrebbe voluto rilasciare la ricevuta richiestagli; infine, con una lettera timbrata in arrivo dalla banca “17 maggio 1945” e recante la data dattiloscritta “10 aprile 1945”, affermò che la lettera del febbraio 1945 era “un errore” poiché “a me nulla compete […] per non avere avuto alcun rapporto in detta faccenda”)[408]. Il 14 e 15 gennaio 1944 i beni vennero sequestrati e prelevati[409]; essi però non furono consegnati alle autorità di Mantova, bensì trasferiti su due autotreni con rimorchio a Maderno, ove infine vennero confiscati dal capo della provincia di Brescia con decreto dell’11 marzo 1944[410]. L’elenco di confisca consisteva di 322 voci (concernenti talora le singole tovaglie o i singoli servizi di argenteria e talora un intero gruppo di 106 federe o di 18 bottiglie d’olio d’oliva) e impegnò oltre tre pagine della “Gazzetta ufficiale”; il decreto precisava che tutto ciò, compresa anche una Fiat 500, era “situat[o] a Maderno, presso l’Ufficio speciale di Polizia del Ministero dell’Interno”[411]. L’argenteria venne stimata, come d’uso, dopo l’atto di confisca (per un valore complessivo di L. 452.665)[412]; i restanti circa 200 beni vennero stimati il 10 marzo 1944 (un giorno prima del decreto di confisca) da una commissione “incaricata dal Capo della Segreteria dell’Ecc. il Ministro dell’Interno” (per un valore complessivo di L. 118.870)[413] e “acquistati dall’Intendenza del Ministero dell’Interno”[414]. Dopo la guerra un dirigente del Ministero dell’interno relazionò che parte di questi ultimi beni (per un totale di L. 40.065) era stata rivenduta dall’Intendenza a “vari funzionari del Gabinetto e della Polizia”, sottolineando che la commissione di stima era “presieduta dall’Intendente del tempo, ing. Costanzini, e composta da altri elementi di fiducia del Gabinetto”[415]. Per parte sua, la vittima segnalò che la parte dei beni acquistata dall’Intendenza e non rivenduta “era stata sostituita con vecchi stracci quasi completamente” e denunciò e dimostrò che i beni prelevatigli non erano stati tutti elencati nel decreto di confisca e che il valore di L. 118.870 era comunque “irrisorio”[416]. Infine nell’aprile 1946 il prefetto di Brescia relazionò che “è emerso quanto segue: a) che in realtà numerosi oggetti di ingente valore non furono inclusi nell’inventario ufficiale […] in quanto oltre ai beni stessi [=inventariati] risulta provato (All. B, C, D ed E) che molta altra merce fu asportata dalla squadra agli ordini del Commissario Mango. b) che la valutazione delle cose inventariate è inferiore alla realtà. c) che oltre ai riscontrati ammanchi sono avvenute sostituzioni di oggetti di pregio con altri di infimo valore” e concluse che il danno complessivo (non è chiaro se comprensivo dell’argenteria e dell’importo formalmente confiscati e nel frattempo già restituiti) “si può valutare all’incirca in L. 14.299.900”[417].

In varie province i capi delle stesse misero in atto irregolarità, talora rivelatesi vere e proprie illegittimità (rispetto alla normativa della Rsi). A Verona nel dicembre 1943 venne istituito nella Federazione del Partito fascista repubblicano un Ufficio reperimenti o Ufficio razziale, che –come relazionò in seguito lo stesso Pfr- effettuò “vari sequestri di valori e di altri beni mobili di proprietà di persone appartenenti alla razza ebraica, beni di cui buona parte andò dispersa”[418]; all’inizio del 1944 il capo della provincia di Verona istituì una Commissione per l’accertamento dei beni ebraici (trasformata dopo il varo del dlg 2/1944, in Ufficio accertamenti e amministrazione beni ebraici), a cui –come relazionò in seguito quest’ultimo- “venne passato l’archivio dell’Ufficio Razziale costituitosi, a suo tempo, in seno alla Federazione dei Fasci Repubblicana e che sino al 15/2/44 aveva trattato le diverse questioni relative agli ebrei ed ai loro beni: con l’occasione non venne effettuato alcun passaggio di consegna e non fu possibile ottenere una relazione sul lavoro compiuto e sui risultati conseguiti”[419].

A Cremona il capo della provincia nel dicembre 1943 nominò a sequestratario e amministratore dei beni ebraici una persona indicata dal notabile fascista locale; nel marzo 1944 questi propose all’Egeli di confermare tale amministratore in relazione alle confische previste dal nuovo dlg 2/1944, essendo egli “persona capace e tale da dare ogni garanzia”[420]. L’Egeli allora propose alla Cassa di risparmio delle provincie lombarde di accettare la delega a Istituto gestore per Cremona utilizzando la suddetta persona[421]. La banca però non accettò la delega, per via di quelle che il suo responsabile locale definì all’epoca “certe particolari situazioni ambientali”[422], ovvero per il fatto che, come si espresse una relazione postbellica dell’Egeli, l’amministratore “veniva pressoché imposto dalle autorità locali”[423]. Nel dicembre 1944 l’Egeli affidò la delega alla Banca popolare di Cremona[424]. Con una procedura anomala rispetto alle altre province, tale affidamento fu avvallato da un decreto del capo della provincia, nel quale era altresì precisato: “La Banca Popolare di Cremona istituirà un apposito ufficio di gestione ed amministrativa [sic!] dei beni ebraici confiscati a capo del quale assumerà il predetto dott. [ossia la persona in carica dal dicembre 1943]”[425].

A Firenze sin dal dicembre 1943 venne istituito presso la prefettura un Ufficio affari ebraici, sottoposto a un commissario prefettizio, al quale il capo della provincia all’inizio di marzo 1944 delegò anche “l’emanazione e la firma dei provvedimenti e dei decreti coi quali si ordini la confisca ed il trasferimento dei beni”[426]. Stando a un successivo promemoria dell’Egeli, nel marzo 1944 l’Ufficio di Firenze aveva riepilogato che le proprietà degli ebrei fiorentini consistevano in 350 fabbricati, 102 aziende agrarie, depositi bancari per tredici milioni di lire e altri tipi di beni[427]. Il 25 aprile la locale Intendenza di finanza fece presente al Ministero di aver ricevuto dalla prefettura 5 decreti di confisca e di aver avuto segnalazione nei mesi precedenti di circa 200 sequestri effettuati nelle case dalla Questura e dalla Guardia nazionale repubblicana[428]. Il 28 giugno l’Egeli segnalò al Ministero delle finanze di aver ricevuto sino ad allora solo 23 decreti di confisca di beni immobili e mobili e 12 di confisca di depositi presso terzi[429]. Intanto nella seconda decade di giugno 1944 -in data precedente sia all’ordine generale di trasferimento al nord, sia all’ordine specifico per le province toscane (2.a.3.14)- l’Ufficio affari ebraici e la Guardia nazionale repubblicana organizzarono il trasferimento al nord dei beni da essi gestiti, tutti sequestrati e non confiscati: una decina di casse con oggetti di valore e con l’archivio dell’Ufficio affari ebraici il 17 giugno 1944 vennero depositati presso la Banca d’Italia di Milano[430]; una somma superiore a un milione di lire (quasi tutta in assegni) e un piccolo quantitativo di titoli azionari all’inizio di settembre 1944 erano presso l’Ispettorato generale per la razza a Desenzano[431]; circa trentacinque casse contenenti gli arredi sacri della sinagoga di Firenze e beni di ebrei fiorentini nell’autunno 1944 erano a Bergantino, in provincia di Rovigo, ove aveva sede un reparto della Guardia nazionale repubblicana[432].

A Ferrara nel giugno 1944 non era ancora stato individuato l’Istituto gestore. Alla fine del mese l’Egeli informò il Ministero delle finanze che la locale Cassa di risparmio era risultata inadatta e “non […] gradit[a] alle Autorità locali anche per ragioni politiche”, caratteristiche invece possedute dall’Istituto federale di credito agrario per la provincia di Ferrara[433]. Tre mesi dopo il nuovo capo della provincia convinse l’Egeli dell’opportunità di abbandonare le trattative col secondo istituto e riprenderle col primo[434]. In settembre sembrò che la Cassa di risparmio di Ferrara avesse accettato la delega dell’Egeli, ma l’8 novembre 1944 essa escluse formalmente di poterlo fare, sì che in quello stesso mese prese corpo la possibilità –poi concretizzata- di assegnare le mansioni dell’Istituto gestore all’istituendo Ufficio affari ebraici presso la prefettura[435]. Riguardo agli atti contabili tenuti da quest’ultimo, il 1° settembre 1945 un incaricato del prefetto scrisse: “Nessuno dei registri sopradescritti è stato tenuto con quella cura e garanzia richiesta dalla legge e dalle regole di contabilità. […] Entrate: […] spesso delle somme sono cancellate senza alcuna indicazione del motivo che hanno [sic!] determinato la cancellatura; […] si ha motivo di ritenere che manchino gran parte di registrazioni relative ad incassi effettuati dalla vendita di mobilio. […] Uscite: le registrazioni relative alle spese devono ritenersi regolari”[436]. Per due volte nel 1944, il 13 maggio e il 9 settembre, il capo della provincia in carica aveva prelevato una cospicua liquidità dai depositi di ebrei bloccati presso le banche cittadine (6 milioni di lire la prima volta e 2,4 milioni di lire la seconda) a lui occorrenti dapprima per pagare “stipendi, salari e forniture riguardanti la Guardia Nazionale Repubblicana” e poi per non meglio specificate “inderogabili e urgenti” esigenze della Federazione fascista repubblicana[437]; in entrambi i casi gli importi vennero restituiti dopo circa un mese, ciononostante tali prelievi restavano privi di qualsiasi giustificazione normativa; infine, in evidente contrasto sia con la normativa generale sia con la direttiva ministeriale di trasferimento di tutti i depositi confiscati al nord (2.a.3.14), a partire dal 7 novembre 1944 il capo della provincia emanò i decreti di confisca e trasferimento dei depositi di ebrei dalle varie banche alla Cassa di risparmio di Ferrara, in un conto intestato “al Capo della Provincia di Ferrara, con facoltà nel medesimo di movimentarlo a secondo che lo richiedano necessità assolute e di carattere improrogabile”[438].

2.a.5.1 In varie località della penisola, i comandi di polizia tedeschi effettuarono confische, attuate con la forza ma sovente accompagnate da ordini scritti e quindi comunque connesse con le norme che regolavano la loro presenza in Italia. E’ rimasta documentazione di quelle effettuate presso le banche. Ad esempio, tra l’8 e il 19 luglio 1944 il responsabile della Sipo-SD di Firenze ordinò il prelievo dei depositi di ebrei presso varie banche fiorentine (per lo meno Banca commerciale italiana, Banco di Napoli, Banco di Roma, Credito italiano, Monte dei paschi di Siena), facendosi quindi consegnare il contenuto delle cassette di sicurezza e assegni con l’ammontare dei saldi dei conti correnti[439]. Simili azioni vennero effettuate presso istituti di credito di Novara, Bologna e altre città non facenti parte delle zone di operazione Prealpi e Litorale adriatico.

Primo Levi ha scritto che, quando la polizia tedesca organizzò la partenza del suo convoglio da Fossoli per Auschwitz nel febbraio 1944, “ci fecero dire dagli interpreti che tutti gli ebrei sarebbero partiti per un paese freddo, e che perciò era opportuno portarsi dietro abiti pesanti, coperte e pelliccie, oltre che, naturalmente, oggetti di valore, danaro e valuta”[440].

2.b. La normativa tedesca nelle zone di operazione Prealpi e Litorale adriatico

La normativa introdotta dalle autorità tedesche nelle due zone di operazione Prealpi (province di Bolzano, Trento e Belluno) e Litorale adriatico (province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana) viene descritta sulla base dei provvedimenti attuativi ed esecutivi e di alcune relazioni. Essa risulta essere sostanzialmente identica nelle due zone.

Salvo diversa indicazione, tutti i documenti tedeschi consultati utilizzano il termine Beschlagnahme; esso viene qui tradotto col vocabolo “sequestro”, anche se il prelevamento dei beni appare avere il carattere definitivo della “confisca”.

2.b.1 Il meccanismo di spoliazione è così descritto dallo stesso occupante. Nella zona di operazione Prealpi, a seguito di un ordine generale del Commissario supremo (oberster Kommissar), il patrimonio ebraico (juedisches Vermoegen) “viene sequestrato dal dipartimento I-comandante di SS e polizia e successivamente consegnato al competente dipartimento III–Finanze dell’Ufficio centrale del Commissario supremo per le specifiche successive azioni di trattamento, amministrazione e valorizzazione (Behandlung, Verwaltung und Verwertung)”[441]. Per il Litorale, l’ordinanza (Anordnung) emanata il 14 ottobre 1943 dal Commissario supremo relativamente al “trattamento del patrimonio ebraico” stabiliva: tutti i beni mobili e immobili di ebrei sono posti sotto sequestro; i comandanti superiori di SS e polizia di Trieste e Lubiana sono incaricati di provvedere a registrare e mettere in sicurezza (zu erfassen und sicherzustellen) i beni dei rispettivi territori e a darne immediata notizia alla Sezione finanze del Commissario supremo, alla quale spetta la loro amministrazione provvisoria e valorizzazione finale (einstweilige Verwaltung und endgueltige Verwertung); le cessioni di beni ebraici finalizzate alla loro mimetizzazione o esportazione (Verschleierung oder Verschleppung) sono annullate e ogni responsabile della sottrazione del patrimonio ebraico a questa ordinanza è severamente punito (ist strengster Bestrafung zuzufuehren)[442].

Il sequestro dei beni degli ebrei ordinato in ciascuna zona dal comandante superiore di SS e polizia (Hoeherer SS- und Polizeifuehrer), veniva messo in atto in ciascuna provincia dal capo della Sipo-SD (Befehlshaber der Sipo-SD [Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst/Polizia di sicurezza e Servizio di sicurezza]). Nel Litorale le azioni di sequestro dei beni (e quelle di arresto) erano sovente attuate dal reparto speciale Einsatzkommando Reinhard o Einsatzkommando R, articolato in R I a Trieste, R II a Fiume, R III a Udine e (fuori del Litorale) R IV a Mestre; si trattava di una struttura parallela alla precedente e anch’essa dipendente dal comandante superiore di SS e polizia[443].

Il 7 ottobre 1943 un generale tedesco trasmise ai subordinati la seguente direttiva pervenutagli dal comandante superiore di SS e polizia del Litorale adriatico: l’arresto degli ebrei e il prelievo (Vereinnahmung) dei loro beni di valore (Vermoegenswerte) era compito esclusivo della Sipo-SD[444]. Relativamente all’attuazione del primo di questi due compiti, va rilevato che l’ordine di arresto degli “ebrei puri” (Volljuden) della provincia di Bolzano venne emanato il 12 settembre 1943 e venne eseguito a Merano il 16 settembre 1943 e che le prime retate degli ebrei di Trieste e Gorizia furono attuate rispettivamente il 9 ottobre e il 23 novembre 1943.

2.b.2 La normativa, la pratica attuazione e i risultati di un anno della spoliazione nella provincia di Trieste sono ben riepilogati nella seguente relazione (qui riportata integralmente, in traduzione italiana):

“Trieste, 26 febbraio 1945. Al Commissario supremo della Zona di operazione “Litorale adriatico” Dipartimento finanze, Cons. Gov. Sup. Dr. Zojer, Trieste.

“Ogg.: Ricognizione delle operazioni di servizio del Sottodipartimento 4 del Dipartimento finanze del Commissario supremo in merito alla gestione del patrimonio ebraico: rapporto del capo sezione a riposo Dr. Friedrich Moc.

“In conformità con l’incarico orale del Cons. Gov. Sup. Dr. Zojer, in data 17, 19 e 20 febbraio 1945 ho preso visione delle operazioni di servizio del Sottodipartimento 4 del Dipartimento Finanze del Commissario supremo relative alla gestione del patrimonio ebraico.

“A tale proposito riferisco quanto segue:

“Al suddetto (Sotto)Dipartimento, composto dal direttore e da 6 impiegati (tra cui una dattilografa), spettano la valorizzazione e l’amministrazione (cura) dell’intero patrimonio ebraico sequestrato nel Litorale adriatico e la gestione di tale patrimonio. Per quanto riguarda il patrimonio ebraico nelle province al di fuori di Trieste, il Dipartimento finanze si avvale come anelli intermedi dei Consiglieri di finanza dei singoli Consiglieri tedeschi, che si occupano della valorizzazione e dell’amministrazione del patrimonio ebraico rientrante nel loro ambito, secondo le direttive del Dipartimento finanze del Commissario supremo.

“I fondamenti giuridici del sequestro del patrimonio ebraico nella zona di operazione sono costituiti dall’ordinanza segreta del Commissario supremo del 14.10.1943. In merito al sequestro decide il Comandante superiore di SS e polizia “Reparto R”. Il Dipartimento finanze viene informato di ciascun sequestro con notifica, avente autorità di cosa giudicata e non impugnabile, redatta dal Capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza. Il numero dei patrimoni ebraici sequestrati al momento della ricognizione era 1420. Anche al presente pervengono ancora notifiche di sequestro, poiché singoli ebrei riescono ancora fino ad oggi a sottrarsi al sequestro, anche per mezzo della mimetizzazione.

“Con l’inoltro della notifica ha inizio l’attività del Dipartimento finanze. Nel corso della valorizzazione e dell’amministrazione, i patrimoni ebraici sopraggiunti e i nuovi elementi, facenti parte di patrimoni ebraici già sequestrati, vengono aggiunti al sequestro per tramite della Polizia di sicurezza.

“Per ogni patrimonio ebraico viene approntato un fascicolo specifico (contrassegno Ju/1-1420 e così via), in cui vengono raccolti i documenti relativi a ciascuna operazione, dalla presa in possesso fino alla definitiva valorizzazione e amministrazione, sia in originale sia in copia, cosicché tale fascicolo fornisce in qualsiasi momento chiarimenti completi sullo stato del relativo patrimonio ebraico, sul tipo della sua valorizzazione e amministrazione.

“La valorizzazione e l’amministrazione sono diverse a seconda del tipo dei beni, per es. beni di consumo (vestiti, scarpe, biancheria e simili), oggetti di arredamento (mobili), gioielli, titoli e depositi bancari, beni fondiari. Parimenti, anche il disbrigo delle operazioni, legate alla valorizzazione e all’amministrazione dei singoli beni patrimoniali, è affidato ciascuno ad un impiegato (con ricorso al necessario personale ausiliario).

“Gli oggetti di consumo e di arredamento, rinvenuti al momento della presa in possesso, vengono inventariati, stimati – eventualmente con l’ausilio di un perito stimatore – e vengono posti in vendita privata. Gli oggetti non immediatamente valorizzabili vengono depositati in un magazzino situato nel porto franco, dove restano a disposizione degli acquirenti per visione e acquisto. Il valore della stima costituisce la base del prezzo di vendita, che tuttavia viene modificato a seconda della domanda, in particolare nel caso di mobili e macchine d’ufficio, tenendo conto della più o meno possibile prosecuzione dell’attività (licenza). Le installazioni stabilmente fissate ai muri (armadi a muro, scaffali, lampade, lampadari) di per sé difficilmente utilizzabili, vengono lasciate nell’appartamento (locale) e per esse verrà richiesto al futuro acquirente il pagamento di un corrispettivo adeguato. I mobili d’arte vengono valorizzati secondo le disposizioni del dr. Frodl, Incaricato per la tutela dei monumenti nella Zona di operazione, i libri invece – con l’eccezione dei libri ebraici (libri di preghiera e simili) che vengono distrutti – [vengono valorizzati ndt] secondo le disposizioni del direttore generale Heigl della Biblioteca nazionale di Vienna. Gli esercizi commerciali vengono in linea di principio liquidati o venduti ma non rilevati in amministrazione propria. Viene proseguito solo l’esercizio di una fabbrica di carta, su suggerimento del Dipartimento economia e con il suo consenso, tenendo conto degli impianti di valore e non vendibili a prezzo conveniente e del grande numero di impiegati che diverrebbero disoccupati in caso di chiusura; tale fabbrica ha prodotto al 30.6.44 un utile netto di L. 445.447.

“Dopo lo sgombero, le unità immobiliari verranno lasciate al Consigliere tedesco della città di Trieste per ulteriore impiego (a sfollati per bombe, autorità, uffici e così via). Il numero di tali appartamenti sgomberati è finora pari a circa 400, quello dei locali commerciali di circa 30. Due persone esterne sono incaricate di inventariare gli oggetti di uso e di arredamento, contro il versamento di una paga settimanale.

“Gli oggetti di valore (oro, argento e gioielli) di ogni genere non vengono temporaneamente venduti, dopo essere stati inventariati con precisione e previa indicazione del numero del fascicolo ebraico, vengono depositati in valige chiudibili in una camera di sicurezza della Kaerntnerbank [Banca di Carinzia] a Klagenfurt; provvisoriamente un resto viene raccolto e depositato sotto chiave nelle cantine della Cassa Superiore fino al trasferimento. Il numero degli oggetti di valore inventariati è pari a circa 3.800, tenendo conto che più volte pezzi dello stesso genere vengono riuniti sotto lo stesso numero di inventario. Il valore degli oggetti di valore depositati nella camera di sicurezza della Kaertnerbank è assicurato per circa 2 milioni di R.. [=RM/Reichmark?].

“I titoli sequestrati (azioni, titoli pubblici ed altro) – nella misura in cui non siano già depositati presso una determinata banca – sono depositati in custodia comune presso la Banca commerciale italiana. I 313.533 titoli azionari e di Stato (tra questi 94 tipi diversi di azioni) possiedono attualmente un valore di mercato pari a L. 452.967.581 e frutterebbero come provento sotto forma di interessi (dividendi), secondo i risultati di bilancio dell’anno 1943, un importo pari a 2,5 milioni di lire. Tale provento tuttavia, tenendo conto che alcune imprese si trovano in territorio occupato dal nemico, non è attualmente pienamente recuperabile. Si trova tuttavia in custodia anche un grosso numero di altri titoli, come obbligazioni comunali e provinciali, obbligazioni di credito fondiario, obbligazioni elettriche e dei trasporti, prestiti a premi ecc., il cui valore non può essere stimato con sicurezza, tenendo conto della loro più o meno diminuita commerciabilità.

“I depositi a risparmio vengono incassati, nella misura in cui siano disponibili i libretti di risparmio oppure gli istituti di risparmio ne effettuino il rimborso anche in caso di mancata esibizione dei libretti di deposito.

“Dei crediti bancari, i conti di conto corrente vengono riscossi; i conti di deposito, i saldi per valuta e i conti gravati con mutui restano in essere; gli estratti conto in arrivo vengono verificati. Delle 170 cassette di sicurezza sequestrate, 100 sono state finora aperte e vuotate. Le banche hanno ricevuto istruzione di versare i dividendi e gli interessi che spetteranno – nella misura in cui esista ancora un conto bancario per gli ex titolari ebrei – su tali conti, in caso contrario, tuttavia, di versarli sul conto speciale della Cassa superiore del Commissario supremo in essere presso la Banca commerciale italiana, previa indicazione del patrimonio ebraico di appartenenza e di comunicare i relativi accrediti e bonifici al Dipartimento finanze.

“In caso di beni immobili, vengono dapprima accertati, in base ai libri catastali, le loro dimensioni, i rapporti di proprietà e il loro stato relativamente ai gravami e viene insediato un amministratore per l’amministrazione degli oggetti facenti parte di ciascuna massa [patrimoniale ndt] ebraica che deve rendere conto trimestralmente. Viene controllata la tempestiva presentazione dei conti, questi ultimi sono stati finora sottoposti solo ad un esame sommario per verificare se si estendono sul complesso dei beni fondiari del patrimonio ebraico in questione; non era possibile eseguire un esame più particolareggiato con il personale disponibile.

“Ora si procederà però anche all’esame dei conti dell’amministratore sin dall’inizio, vale a dire dall’anno 1944, in relazione alla loro correttezza numerica e materiale. A tale scopo è stato chiamato un esterno, un ex amministratore, che avrà l’obbligo di verificare tutti i conti nel giro di tre mesi, a fronte di una retribuzione forfetaria di L. 12.000 e di redigere delle direttive generali, in base alle proprie osservazioni in merito, per la futura compilazione dei conti dell’amministratore.

“Il Dipartimento finanze amministra attualmente da Trieste: 15 proprietà terriere situate nelle province di Trieste, Udine e Gorizia, inoltre l’intero ulteriore patrimonio fondiario ebraico nella provincia di Trieste, e precisamente 258 case, 42 ville, 115 appartamenti di proprietà (tra questi 15 magazzini e 7 locali commerciali) – secondo la legislazione italiana è infatti possibile acquistare la proprietà immobiliare di singoli elementi di una casa – e 197 terreni non edificati. Complessivamente 44 amministratori sono stati incaricati dell’amministrazione di queste proprietà fondiarie.

“Tutti i ricavi provenienti dall’amministrazione del patrimonio ebraico, senza distinguere a seconda degli elementi patrimoniali da cui provengono, e tutte le spese connesse alla loro amministrazione, sono unificati nel conto speciale, precedentemente menzionato, della Cassa superiore del Commissario supremo presso la Banca commerciale italiana, dalla quale Cassa superiore vengono in linea di principio versati e prelevati separatamente sul conto posto in essere per ciascun patrimonio ebraico. I proventi risultanti per lo più da oggetti di uso e arredamento, la cui provenienza e appartenenza a un determinato patrimonio ebraico non è più accertabile, in seguito al sequestro effettuato a suo tempo dalle autorità di polizia e a causa del deposito in comune, nonché le spese come, a titolo esemplificativo, i salari corrisposti alle persone che si occupano dell’inventario, oppure le spese di trasporto comune per diversi patrimoni ebraici, i costi di magazzino, i costi di valutazione o in futuro la retribuzione forfetaria per la verifica dei conti dell’amministratore, vengono computati su un conto comune. Tali proventi comuni ammontano attualmente a circa 2,3 milioni di lire, mentre le spese comuni a circa 14,2 milioni di lire. Tra le spese comuni compare, oltre alle spese summenzionate, anche il pagamento in contanti effettuato agli spedizionieri pari a circa 10 milioni di lire per le spese di magazzinaggio, che si è dovuto effettuare per svincolare, prima che venissero portati via e consegnati a Klagenfurt, i beni di trasloco sequestrati nel porto franco di Trieste di ebrei fuggiti a suo tempo dal Reich.

“Gli interi proventi (lordi) provenienti dalle diverse fonti di introito del patrimonio ebraico, come la vendita di oggetti di uso e di arredamento, la liquidazione di attività e di patrimoni bancari e inoltre provenienti da amministrazioni fondiarie, ammontavano al 31 gennaio 1945 a circa 35 milioni di lire, a fronte di spese per circa 14 milioni. In data 26 febbraio 1945, i proventi netti risultanti dal patrimonio ebraico ammontavano a L. 23.054.671,90, come appare sul conto speciale della Cassa superiore presso la Banca commerciale italiana. Tali proventi appaiono nel conto d’ordine presso la Cassa superiore risultanti dalla “custodia” (denaro di terzi). Il credito bancario frutta interessi con un tasso di interesse di 1/5%. Al fine di accrescere gli utili, si ha l’intenzione di dare un prestito di 20 milioni di lire, con questo credito, ad un più alto tasso d’interesse (3%) alla società di trasporto merci “Adria”.

“In base ai miei accertamenti constato infine per concludere che il (Sotto)Dipartimento finanze ha fatto tutto il possibile per affrontare [la situazione ndt] con la limitata consistenza di personale, in considerazione dell’ambito economico fortemente ramificato e concernente quasi tutti i settori economici – nel primo periodo il materiale di lavoro perveniva in modo irregolare-. Sui documenti disponibili, la cura può essere in qualunque momento ulteriormente corredata [sic! ndt], anche secondo i requisiti di pace, nella misura in cui il Dipartimento non cominci esso stesso fin da ora ad approfondire la sua attività di amministrazione, come mostra l’intrapresa verifica del conto dell’amministratore. Si mostrerà soprattutto necessaria la verifica della gestione delle banche in relazione ai titoli e al patrimonio ebraico in custodia e amministrazione (tempestivo trasferimento degli interessi e dei dividendi maturanti, estrazioni a sorte ecc.). La documentazione presente è anche sufficiente per qualsiasi valutazione statistica desiderata a fini amministrativi, come per esempio l’accertamento dell’ammontare dei singoli patrimoni ebraici e del patrimonio ebraico nel suo complesso, la distribuzione a seconda dei singoli elementi patrimoniali e altro. In tale contesto si dovrà rispondere anche alla domanda concernente chi dovrà rifondere le spese di magazzinaggio di circa 10 milioni di lire, effettuato per i beni di trasloco degli ebrei e in quale modo si dovrà ripartire il residuo delle spese generali accumulatesi, effettuate nelle singole masse [patrimoniali ndt] ebraiche.

“Tale organizzazione, al momento non urgente, necessita tuttavia di un numero maggiore di persone che se ne occupino, rispetto a quante non siano a disposizione del Dipartimento e dovrà quindi essere riservata, anche per tali motivi, al ritorno di condizioni normali.

“Dr. Friedrich Moc honoris.”[445]

La normativa illustrata nella relazione continuò ad essere applicata nei due mesi seguenti.

2.b.3 Per quanto concerne in particolare l’avvio della spoliazione dei depositi bancari nella zona Prealpi, è documentato che il 26 settembre e il 12 ottobre 1943 la questura di Belluno informò la prefettura, “con preghiera di riferirne all’Autorità germanica”, di come era stato attuato il “fermo” o “blocco” dei beni degli ebrei presso gli istituti di credito (e degli altri beni mobili e immobili di loro proprietà)[446]; che a Trento il 30 ottobre 1943 il “Commissario Germanico per le aziende di credito” chiese alle banche l’elenco dei depositi di ebrei e enti militari italiani[447]; e che il comandante della Sipo-SD di Merano, rispondendo a una lettera del 3 novembre del suo superiore di Bolzano, gli riferì intorno alla “messa in sicurezza” (Sicherstellung) dei beni degli ebrei del posto, ossia delle case e dei negozi (col loro contenuto) e dei conti bancari, che erano stati bloccati (gesperrt)[448].

Per il Litorale, sappiamo che il 7 ottobre (ossia sette giorni prima dell’ordinanza del 14 –2.b.1-) la Sipo-SD di Trieste notificò alle banche cittadine il sequestro di tutti i depositi degli ebrei, con la richiesta di segnalare eventuali valori trasferiti da ebrei ad ariani dal 15 luglio 1943[449]; che a Pola il 3 novembre un Istituto di credito comunicò alla “polizia di stato tedesca” i depositi di ebrei sottoposti a “blocco” (Sperrung) e quindi –sembrerebbe di poter dedurre- a sequestro[450]; che a Udine il 17 novembre la Sipo-SD dispose il sequestro “per misure di polizia” (sicherheitspolizeilich) di tutti i depositi degli ebrei presso le banche[451]; che a Gorizia il 19 novembre la Sipo-SD dispose per lo meno il blocco di tutti i depositi di persone “di razza ebraica” presso le banche[452]; che a Fiume il 24 novembre la Sipo-SD dispose il sequestro di tutti i depositi di ebrei presso le banche[453].

Riguardo alla successiva gestione dei depositi bancari di ebrei sequestrati nelle Prealpi, è documentato che il 3 giugno 1944 il Dipartimento III-Finanze ordinò a un istituto di credito di Merano di versarli nel conto 1211/66 presso la Cassa di risparmio di Bolzano e che un altro istituto meranese iniziò ad attuare trasferimenti similari il 27 giugno[454].

Per il Litorale, sappiamo che il 4 febbraio 1944 la Sezione finanze del Commissario supremo ordinò alle banche di Trieste di aprire un conto intestato “Amministrazione patrimoniale del Commissario supremo” (Vermoegensverwaltung des Obersten Kommissars) e di versare in esso gli importi dei depositi degli ebrei[455], e che “a partire dal marzo 1944” ordinò alle varie banche cittadine di versare detti conti in quello aperto presso la Banca commerciale italiana[456]. Il 9 agosto la stessa sezione Finanze ordinò a un istituto di credito di Pola di trasferire i depositi di ebrei sul medesimo conto[457]. In data precedente al 20 agosto 1944 il consigliere di Finanza (Finanzberater) del consigliere tedesco (Deutscher Berater) presso la prefettura di Udine dispose il trasferimento di due depositi bancari di ebrei nel conto n.183 presso il Credito italiano di Udine[458]. In data precedente al 28 marzo 1944 il consigliere di Finanza del consigliere tedesco presso la prefettura di Gorizia comunicò agli istituti di credito che l’amministrazione dei beni degli ebrei era ora di sua competenza[459]; in data precedente al 15 luglio iniziò a farli trasferire nel conto “Amministrazione patrimoniale del Consigliere di Finanza” (Vermoegensverwaltung des Finanzberaters) presso la Cassa di risparmio di Gorizia[460]. Il 18 luglio 1944 il consigliere di Finanza del consigliere tedesco presso la prefettura di Fiume, ricevuta dal comando Sipo-SD la competenza sui beni ebraici, chiese a un istituto di credito l’elenco aggiornato dei depositi[461]; a partire dal luglio 1944 ordinò agli istituti di credito di versare i depositi degli ebrei nel conto “Consigliere tedesco per la provincia del Carnaro-Sezione Finanze-Reparto Valorizzazione patrimoniale” (Deutscher Berater fuer die Provinz Quarnero-Abteilung Finanzen-Referat Vermoegensverwertung) presso la locale Reichskreditkasse[462]. Va tenuto presente che talora un deposito esistente in una provincia venne fatto versare nel “conto di raccolta” di un’altra provincia; per lo meno in alcuni casi ciò fu con certezza determinato dall’applicazione del principio di prevalenza della località di effettiva residenza dell’intestatario del conto.

Nel conto aperto presso la Banca commerciale italiana vennero fatti versare anche “gli importi ricavati dalla vendita di beni ebraici eseguita direttamente dal Supremo Commissario, gli affitti delle case appartenenti agli ebrei ecc.”[463].

2.b.4 L’8 ottobre il Commissario supremo del Litorale “pos[e] il blocco sulle diverse partite di masserizie depositate nel Puntofranco [del porto] di Trieste sia presso gli speditori sia presso i Magazzini Generali”[464], ovverosia sulle centinaia di cassoni o “liftvan” di ebrei stranieri rimasti bloccati per motivi bellici e l’11 maggio 1943 posti sotto sequestro dal prefetto di Trieste. Il 12 gennaio il Commissario supremo precisò che tale patrimonio ebraico (juedisches Vermoegen) era sequestrato (beschlagnahmt) e ne ordinò il trasferimento[465]. Al 25 agosto 1944 erano stati spediti 499 cassoni e 989 colli singoli (per complessivi kg. 1.630.998 lordi) a Berlino e 170 cassoni e 7.719 colli singoli (per complessivi kg. 1.365.976 lordi) in Carinzia[466].

2.b.5 La Sezione finanze del Litorale adriatico incaricò della vendita di una parte dei beni sequestrati (specialmente di quelli prelevati nei magazzini del porto) la Gueterverkehrsgesellschaft Adria (Società di trasporto merci Adria), costituita alla fine del 1943 per iniziativa dello stesso Commissario supremo e rimasta sempre sotto il suo controllo[467].

2.b.6 Le autorità tedesche non consentirono l’applicazione della normativa della Rsi nelle zone di operazione.

Nella zona di operazione Litorale adriatico, il “Foglio ufficiale delle ordinanze” datato 15 ottobre 1943 pubblicò un’ordinanza del Commissario supremo datata 1° ottobre 1943 con la quale egli assumeva “tutti i poteri civili pubblici” e si riservava la facoltà di annullare o modificare “il diritto finora vigente nelle provincie”[468]. Fu basandosi su tale atto che egli (similmente al suo omologo della zona Prealpi) non riconobbe mai vigente la normativa di confisca dei beni degli ebrei emanata dalla Rsi.

Riguardo alle proteste delle autorità locali “italiane”, è documentato che, avendo il prefetto di Trieste immediatamente segnalato al consigliere tedesco presso la sua prefettura il telegramma della Rsi del 29 gennaio 1944 con le prime informazioni sul dlg 2/1944 (2.a.3.1) e avendogli chiesto di “voler comunicare quali provvedimenti dovrà adottare questa prefettura”[469], il consigliere gli rispose il 1° marzo 1944 invitandolo a “non […] prende[re] alcun provvedimento” e annunciandogli per i “prossimi giorni” (naechsten Tage) un’ordinanza del Commissario supremo[470]. Ma il 24 novembre 1944 gli comunicò che questi aveva “palesato” (eroeffnet) che il dlg 2/1944 “non è divenuto giuridicamente efficace” (nicht rechtswirksam geworden ist) nel Litorale e che la materia era di esclusiva competenza del Commissario supremo stesso[471], e il 7 dicembre 1944 gli comunicò di non poter dargli copia delle istruzioni e degli ordini del Commissario supremo e che comunque questi non aveva intenzione di emanare al riguardo una “ordinanza conclusiva” (abschliessende Verordnung)[472].

Riguardo alle proteste delle autorità centrali della Rsi, è possibile ricapitolare quanto segue. A seguito di una lettera del dicembre 1943 del soprintendente ai monumenti e gallerie del Friuli Venezia Giulia[473] e di un conseguente Appunto predisposto dal Ministero degli esteri della Rsi il 3 febbraio 1944 e visto da Mussolini nel volgere di pochi giorni[474], il 10 febbraio 1944 il Ministero degli esteri della Rsi presentò all’Ambasciata di Germania un Appunto denunciante i sequestri di beni artistici e di altro tipo compiuti da “Autorità di Polizia germaniche” nel Litorale adriatico e sollecitante la loro consegna ai capi delle province[475].

Nel frattempo il capo della provincia di Udine, aderendo alla richiesta inviatagli il 15 gennaio dalla “Autorità Germanica di questa Provincia” affinché “la requisizione delle opere d’arte di proprietà di ebrei […] siano [sic] fatte a suo favore”[476], avvertì i podestà che, a modifica delle precedenti istruzioni da lui inviate a seguito della circolare ministeriale del 1° dicembre 1943 (2.a.1.5), le opere di arte dovevano “essere tenute a disposizione della Autorità Germanica”[477].

Il ministro delle Finanze comunicò al Ministero degli esteri che, come riferito dalla prefettura di Trieste [vedi sopra], il 1° marzo 1944 il consigliere tedesco presso quella prefettura aveva “dispo[sto], nel territorio della Provincia stessa, la sospensione dell’applicazione del DL del Duce 4 gennaio 1944, numero 2, relativo alla confisca dei beni ebraici”, preannunciando nel contempo la prossima emanazione di un provvedimento tedesco in merito per l’intera zona Litorale[478]. Il ministro aggiungeva di aver ricevuto segnalazioni similari dalle prefetture di Pola e Udine e che il 14 marzo l’intendenza di finanza di Fiume aveva riferito che quel consigliere tedesco aveva comunicato alla prefettura che “il Commissario Supremo ha riservato a sé la cura del patrimonio degli ebrei”[479]. Infine, la Confederazione delle aziende del credito e della assicurazione lo aveva informato dell’ordine di sequestro del 7 ottobre 1943 del capo della polizia del Litorale (2.b.3)[480].

A seguito di queste informazioni, l’11 aprile il Ministero degli affari esteri della Rsi sottopose a Mussolini e poi presentò all’Ambasciata di Germania una Nota verbale, terminante con la richiesta che il dlg 2/1944 “possa trovare piena applicazione ed i beni eventualmente già sequestrati o confiscati vengano consegnati alle Prefetture competenti”[481]. Il 29 maggio il Ministero presentò all’Ambasciata un nuovo, breve, Appunto per sollecitare una risposta alle due note precedenti[482]. L’11 agosto 1944, a seguito della trasmissione il 10 luglio da parte del Ministero delle finanze di due nuove segnalazioni concernenti sequestri tedeschi nella zona Prealpi e la possibile intenzione delle “Autorità Germaniche della Provincia di Trieste” di impadronirsi delle quote di proprietà ebraiche già espropriate dall’Egeli in base al rdl 126/1939[483], il Ministero degli affari esteri presentò un ulteriore Appunto riepilogativo all’Ambasciata di Germania[484].

Infine il 16 settembre 1944 l’Ambasciata di Germania consegnò un Appunto (Aufzeichnung) di risposta all’Appunto del 29 maggio. In esso, dopo aver ricordato che alla fine del 1943 il Commissario supremo della zona di operazione Litorale adriatico aveva impartito delle istruzioni segrete relativamente a come trattare il patrimonio degli ebrei, si affermava che nel Litorale il dlg 2/1944 non era entrato in vigore (nicht in Kraft getreten) dato che ivi il potere legislativo (gesetzgebende Gewalt) era curato (wahrgenommen) esclusivamente (ausschliesslich) dal Commissario supremo, ai sensi della sua ordinanza n. 1 del 1° ottobre 1943. L’ambasciata aggiungeva che non era ancora stata adottata una decisione relativamente a come destinare (einzuweisen) il patrimonio sequestrato e che qualora la Rsi avesse rappresentato la richiesta (Wunsch) di adottare nel Litorale, per il futuro trattamento dei beni ebraici, una regolamentazione analoga a quella del dlg 2/1944, la questione avrebbe dovuto essere sottoposta a un esame approfondito (so muesste diese Frage einem eingehenden Studium zugefuehrt werden)[485].

Il 28 settembre 1944 un nuovo Appunto del Ministero degli affari esteri della Rsi per l’Ambasciata di Germania “pre[se] atto che sinora non è stata ancora sistemata la questione della devoluzione del patrimonio ebraico confiscato” e propose di “addivenire […] ad un accordo” per determinare le “modalità dell’applicazione nelle provincie del Litorale Adriatico” del dlg 2/1944[486].

Il 27 ottobre l’Ambasciata ne accusò ricevuta, assicurando di aver già trasmesso la richiesta alle “competenti Autorità germaniche”[487]. Non sono noti eventuali documenti successivi.

In una sollecitazione inviata direttamente al ministro degli Esteri, il ministro delle Finanze aveva sintetizzato che l’“incameramento dei beni ebraici” da parte tedesca “si risolverebbe in un danno molto sensibile per l’erario”[488].

Non sono state reperite affermazioni e preoccupazioni similari relativamente alla deportazione dei proprietari dei suddetti beni.