Le persone che hanno lavorato, abitato e vissuto via Eupili, ricordano la sede storica della Fondazione CDEC.
Per inviare il proprio ricordo scrivere a: cdec@cdec.it
Gadi Luzzatto Voghera
Sono entrato in via Eupili che ero uno studente di storia. 1985 circa, in una riunione di giovani che si occupavano di sicurezza e di odio antiebraico Adriana Goldstaub ci guidò sapientemente alla definizione del tema. Poi trovai un mare di libri per la mia tesi di laurea e in seguito fui nominato consigliere delegato dell’UGEI. Gli storici del CDEC erano il mio faro, mi aiutarono a discutere il primo libro, che si occupava di giovani e di antisemitismo. Ogni tanto tornavo, in cerca di volumi e riviste introvabili, in quella miniera d’oro che è la biblioteca (per tacere dell’archivio!). Quando si è aperto il bando per la direzione del CDEC per me è stata come una folgorazione, un tornare a casa accanto a colleghi che prima di tutto erano amici. È stato bello, in via Eupili 8.
Liliana Picciotto
Quando sono entrata al CDEC nel 1969, via Eupili significava due locali sul retro della palazzina al secondo piano del numero 6. La biblioteca conteneva 1.500 volumi, l’archivio qualche centinaio di documenti. La finestra era perennemente illuminata fino alle 21 per sbrigare il super-lavoro. Eravamo in 4.
Nel 1976 siamo passati in Via Eupili 8, i locali erano diventati tre. Avevamo conquistato la facciata. La biblioteca si era ampliata, i documenti erano diventati migliaia. Le finestre di sera non erano più illuminate perché eravamo in un posto di lavoro vero, con orari veri. Eravamo in 6.
Nel 1986, in Via Eupili 8, abbiamo conquistato un altro piano, i locali erano diventati 6. La biblioteca si era ampliata ancor di più, i documenti erano diventati decine di migliaia. Eravamo in 8.
Nel 2022 abbiamo abbandonato via Eupili per piazza Safra, con una biblioteca di 30.000 volumi, un milione di documenti, una impegnativa fama di istituto storico internazionale, il super-lavoro è rimasto sempre tale. Siamo in 15.
Ora abbiamo una nuova sede che ci proietta verso il futuro, con nel cuore lo spirito di via Eupili.
Betti Guetta
Ho iniziato a frequentare la palazzina di via Eupili già da giovane. Prima perché al pianterreno del civico 6 c’era la sede del Bene Akiva. Poi in anni universitari per fare la mia tesi di laurea sul pregiudizio antisemita in Italia. Ho bazzicato il settore (archivio del pregiudizio) dove venivano letti i quotidiani per verificare l’affidabilità e onestà della scrittura sui temi riguardanti l’ebraismo, gli ebrei ma soprattutto Israele. Gli articoli venivano ritagliati, incollati su fogli ciclostili e poi archiviati.
Ricordo una gruppo di donne (Adriana Goldstaub, Gigliola Lopez, e altre di cui non ricordo i nomi) con aria seria, impegnata che sapevano cosa cercare e come archiviare il loro materiale. Ai tempi, quotidiani e tv e radio erano gli unici mezzi di informazione (mass-media) e la responsabilità per chi lavorava nel settore era ben visibile. Talvolta arrivavano telefonate di amici o conoscenti o anche sconosciuti che “denunciavano” affermazioni false o pregiudizievoli ascoltate in qualche programma tv o radiofonico o trovate in qualche volantino.
Ricordo la modalità corale del lavoro, il confronto e la discussione tra le colleghe, il rispetto, la capacità di ascolto, la curiosità reciproca. Ero molto ammirata da questo piccolo universo femminile, preparato, colto. E penso che la scelta di diventare una studiosa e di approdare – dopo una carriera professionale nella ricerca demoscopica- al CDEC abbia avuto in Via Eupili un inizio propiziatorio.
Laura Brazzo
Nella palazzina di via Eupili sono entrata per la prima volta all’incirca vent’anni fa, all’epoca delle ricerche per la mia tesi di laurea. Me lo aveva suggerito il rabbino Laras, che in quegli anni teneva un corso alla Statale di Milano.
Di quel primissimo periodo, ricordo soprattutto la Biblioteca. Dietro il finestrone della sala studio, mi aveva colpito lo sguardo un po’ severo, “indagatore”, di Nanette Hayon e, insieme, il sorriso accogliente di Marina Hassan…
Sono tornata in via Eupili poco dopo essermi laureata, questa volta per lavorare al riordino dì un fondo archivistico. In quel periodo via Eupili e il Cdec coincidevano per me con l’archivio, la stanza dell’archivio – che poi era anche l’ufficio di Michele Sarfatti, di Liliana Picciotto e con loro di Gigliola Lopez e Luciana Laudi.
La mattina arrivavo e trovavo già seduti alla loro scrivania Michele e Gigliola, uno di fianco all’altra; poi arrivavano Luciana e Liliana. Stavano tutti e quattro attorno allo stesso grande tavolo, ricolmo di libri, di pile di carte di ogni tipo. Il telefono che squillava continuamente, Michele che ancora fumava, Liliana che non perdeva mai la pazienza…. Michele e Liliana erano sempre presi in discorsi, sempre e soltanto di lavoro. Era l’epoca in cui preparavano la mostra al Vittoriano…
In quel periodo, Gigliola e Luciana erano le sole con le quali, ogni tanto, dal mio tavolo nascosto dietro gli scaffali dell’Archivio, riuscivo a scambiare qualche parola che non fosse solo un “ciao!”…
Salendo al secondo piano, incrociavo ogni tanto Adriana Goldstaub che per un motivo o per l’altro, era sempre di corsa – o almeno, questa è l’immagine che mi è rimasta di lei di quel primo periodo, e non solo….
Ogni tanto compariva Marcello. Lo vedevo di rado – era sempre in viaggio … – ma ricordo che quando arrivava, riusciva, in un modo o in un altro, a catturare immediatamente l’attenzione di tutti. E parlava, parlava, parlava…
Al Cdec, ricordo, si faceva sempre e tutti un gran parlare! Ed è proprio questo continuo parlare, discutere e confrontarsi, anche animatamente, che mi è rimasto più impresso nella memoria di quei primi anni in via Eupili.
Poi, non so bene come, per quegli strani, unici, casi della vita, anch’io sono “entrata” al Cdec: un nuovo lavoro in archivio, che Liliana pensò di affidarmi, e poi un periodo, fondamentale, in Segreteria, al secondo piano, in ufficio con Ornella Coen, e con Marina, Nanette e Alessandra Borgese nella stanza accanto. Proprio durante quel periodo in Segreteria – da cui tutti passavano, in cui tutti si fermavano, per un motivo o per l’altro, non ultimo il caffè! – credo di aver cominciato a conoscere davvero il Cdec e così anche a sentirmene parte io stessa.
Via Eupili, il Cdec in via Eupili, con i suoi alti come con i suoi bassi; con il suo viavai di persone, con il suo reticolo di stanze – magari un po’ disordinate, anche confusionarie ma senz’altro piene di vita, di passione, come le ho conosciute, vissute, calcate praticamente ogni giorno fino a qualche settimana fa – rimane per me un luogo di crescita, di maturazione; direi, un luogo di amicizia con persone alle quali oggi difficilmente saprei rinunciare e alle quali, per i motivi più diversi, sono grata.
Sara Buda
Non ricordo la prima volta che entrai, la palazzina di via Eupili è sempre stata un punto di riferimento per la mia famiglia, un tassello del nostro ebraismo che, come quello di molti nati dopo la Shoah, trae forte impulso dalla Storia.
È proprio attraverso i miei studi storici che ho varcato l’elegante cancello della palazzina: la prima volta da studentessa, poi come tesista, da stagista, da lavoratrice, da dottoranda.
Quel luogo mi ha rapito da subito.
La palazzina, di pochi piani, con l’elegante ingresso scalinato; i tre balconcini sulla facciata, dove ci si appartava – massimo in tre, ben schiacciati – per uno scambio su progetti, per una sigaretta o una telefonata al sole; il cortile attorno, dove parcheggiavamo le biciclette e nei mesi più caldi si potevano ammirare le meraviglie floreali di Nanette; la cancellata pesante e sensibile al cambio di stagione offrivano una dimensione di ufficio che, in una città come Milano, costituisce una rarità.
Anche al suo interno gli uffici del CDEC offrivano un’atmosfera che mai prima di allora avevo trovato in un ambiente di lavoro.
Gran parte del merito era di chi vi lavorava: donne e (pochi) uomini con un attaccamento profondo alla missione del Centro. Suddivisi in diverse stanze, seduti a scrivanie spesso nascoste da scaffali, libri, faldoni e videocassette, tutti erano in continuo movimento.
La dimensione di scambio, di costruzione di qualcosa d’importante era tangibile. Certo lo scambio più alto e perfetto si aveva attorno al tavolo ovale della sala lettura, quando qualcuno portava una torta.
Attorno a quello stesso tavolo, circondato da ampie finestre, dai libri frutto del lavoro del CDEC e dalle tesi prodotte in quella stanza, ho avviato i miei studi, condotto le prime ricerche d’archivio, sono stata presentata ai colleghi nel corso della prima di molte riunioni, ho filmato le prime interviste al fianco di Liliana Picciotto, offerto consulenze a studiosi alle prime armi, scritto il progetto di dottorato. Tutto in poco meno di sei anni.
Chiudendo dietro di me quel possente cancello, porto con me, nei nuovi uffici, l’impegno a conservare un modello di lavoro prezioso che, ci auguro, ricrei un pezzetto dell’atmosfera di via Eupili 6.
Luciana Laudi
Ero appena andata in pensione e lasciavo il mondo della scuola pronta a dedicare le mie energie e il mio entusiasmo all’Ebraismo.
L’accoglienza al CDEC fu calorosa, mi proposi al direttore Michele Sarfatti che subito mi affidò a Gigliola Lopez, allora responsabile dell’Archivio storico.
In quel momento l’archivio era sguarnito, serviva un collaboratore.
Iniziava così la mia collaborazione volontaria che sarebbe durata 20 anni.
Il primo giorno fui accompagnata alla mia postazione e mi fu affidato un faldone di vecchie carte: “devi ordinarle”. Panico.
Mi vennero in aiuto la mia impostazione scientifica, avevo insegnato matematica, e la mia naturale tendenza all’ordine.
Completamente digiuna di archivistica ma con l’appoggio costante di Gigliola Lopez e in seguito di Laura Brazzo, diventate con gli anni care amiche, iniziò un periodo di duro lavoro: libri specialistici, corsi di formazione e di aggiornamento e poi la rincorsa dietro ai software per la descrizione archivistica che cambiavano continuamente: prima ISIS, poi Sesamo, infine xdams….
Mi appassionai subito: la lettura dei documenti mi apriva nuovi mondi, storie che non conoscevo mi spingevano ad approfondire, ero pronta per la ricerca storica.
L’ambiente di lavoro era stimolante, sentivo l’orgoglio dei cdecchini della prima ora ed ero stimolata dalla presenza di studiosi affermati come Michele Sarfatti e Liliana Picciotto, sempre disposti ad aiutarmi.
Ricordo quando con loro, in camice e guanti di gomma, scendemmo, all’inizio del 2000, negli scantinati della palazzina dove erano custodite le carte della Comunità. Ci accompagnava la paura dei topi. Era tutto accatastato, senza un criterio, molti documenti irrimediabilmente rovinati dall’umidità. Una mole grandissima di carte che finirono sulla mia scrivania.
Riordinamento e inventario richiesero un’enormità di tempo ma quante scoperte!
Non era un lavoro, azzarderei a dire che mi sono proprio divertita: ricordo con quale entusiasmo percorrevo via Eupili nell’attesa di mettere le mani sulle mie carte e leggerle, sempre con la speranza di qualche scoperta. Ricordo la commozione quando sbucò fuori quel piccolo foglio di giornale scritto e firmato dagli agenti di custodia di San Vittore: era la testimonianza che portava alla luce l’eroismo di un loro collega, Andrea Schivo, era il documento grazie al quale Andrea è stato insignito della Medaglia dei Giusti.
Personale coinvolgimento poi nella ricerca sui partigiani ebrei, quella che consideravo la mia ricerca e che era iniziata in realtà molti anni prima.
La documentazione era scarsa, molte erano fotocopie, la ricostruzione delle vicende faticosa, ma io li ho amati tutti e per tutti ho cercato di fare il possibile.
20 anni sono tanti, tanti sono stati i Fondi personali descritti, il più importante quello dei Sopravvissuti, quello che mi ha permesso di collaborare al progetto di Liliana che si è concretizzato con il suo Salvarsi.
Avrei continuato il mio lavoro se non mi fossi a poco a poco resa conto che l’età mi rendeva inadeguata a una tecnologia sempre più sofisticata e allora ho preferito “quitté la table”.
Non sono mancati i momenti difficili, ma nel complesso quel che rimane in me è un senso di gratitudine: sono stati 20 anni bellissimi nei quali ho dato ma ho ricevuto moltissimo.
Una fase molto importante della mia vita che ha modificato i miei interessi e che rimpiango.
Fabio Lopez
C’è una rampa di cubetti di porfido che è stata testimone della nostra storia.
Era l’autunno del 1938: dopo lo smarrimento iniziale in quella rampa vi fu un brulicare di ragazzi che, sotto la guida di grandi maestri, poterono crescere con una formazione ebraica, libera ed antifascista, quando nella scuola pubblica era d’obbligo l’Eja Eja Allalà. E venne l’8 settembre ‘43: la scuola si chiuse con l’atto eroico degli esami di riparazione tenuti in cortile, in fondo alla rampa, cancello aperto per la fuga, l’insegnante tenuta di sentinella all’angolo della via per segnalare l’eventuale arrivo delle camionette. Il giorno dopo ciascuno prese la propria strada, non per un futuro radioso, per salvarsi; non tutti ci riuscirono.
Nel dopoguerra quella rampa tornò a brulicare di bambini. C’ero anch’io a correre su e giù nell’ora di ricreazione; in quell’aula al primo piano imparavo a sillabare con penna e calamaio: in italiano e in ebraico. In quella stessa aula, anni dopo, venne la Sinagoga; a 13 anni ebbi lì la mia maggiorità religiosa. Ai piani di sopra arrivò il Cdec; i miei ne parlavano spesso. Ricordo il dolore per l’improvvisa scomparsa di Eloisa Ravenna, straordinaria guida dei primi anni. Mia madre Gigliola poi iniziò a lavorarvi come volontaria. Stavano arrivando i primi computer della storia. Con Liliana si mise a studiare non tanto la Alachà, quanto il MS-DOS e i primi rudimentali data-base: avevano entrambe intuito l’importanza di sfruttare fino in fondo quella opportunità innovativa che avrebbe reso possibile l’improbabile. Riuscirono ad organizzare, senza essere esperte d’algoritmi, quella catalogazione di tutte le vicende umane della Shoah italiana e Liliana, qualche anno dopo, avrebbe pubblicato il Libro della Memoria: scolpito negli scaffali affastellati sui piani di via Eupili e nei bit del sistema informatico che andava perfezionandosi; scolpito soprattutto nella consapevolezza collettiva di ciò che è stato. Poi quella rampa di via Eupili è stata separata da un muro; ed ora anche il Cdec ha fatto le valige. Resta la Sinagoga e resta una targa all’angolo della via per ricordare i giorni della resilienza e della resistenza: fino a quando qualche writer non ci scarabocchierà sopra. A noi “eupilini” resteranno i ricordi.