Un ricordo di Raffaella Mortara

Raffaella Mortara davanti ad un pannello del PRI, Archivio CDEC

A un anno dalla prematura scomparsa di Raffaella Mortara, consigliera e vicepresidente della Fondazione CDEC, la ricordiamo con le parole che ha pronunciato suo cugino Guido Ottolenghi durante la cerimonia di commemorazione tenutasi lo scorso 23 maggio 2021 al Cimitero Ebraico di Milano. Possa il suo ricordo essere di benedizione.

«Ci ritroviamo oggi a circa un anno dalla scomparsa di Raffaella, ricordando che al suo funerale lo scorso marzo molti di noi non poterono partecipare per le regole sull’epidemia, e dunque col permesso di Rav Sciunnach vorrei fare oggi la sua commemorazione, che non potemmo fare allora. Insieme a Anna Segre e Giorgio Mortara abbiamo scelto per la lapide il verso della cantica del mare di Miriam che dice: “Canto all’eterno perché Egli è sommo ed eccelso: cavallo e cavaliere ha gettato in mare” (esodo 15, vv. 20-21). Ognuno di noi ha conosciuto Raffi sotto una particolare angolatura, ma credo non pienamente, perché nascondeva a ciascuno di noi ora uno ora l’altro aspetto di sé. Mi pare di poter dire che teneva le sue amicizie ed affetti con compartimentazione piuttosto rigida e forse solo dopo la sua scomparsa è venuto più facile per ciascuno di noi confrontarsi e così conoscerla in modo più completo. Credo però che concorderete che questo verso si addice alla sua memoria, non solo perché amava il personaggio di Miriam, e ne portava il nome, che aveva ereditato dalla sua riverita nonna Mariana, ma anche perché credeva profondamente in D-o, era combattiva e tuttavia, come Miriam, aveva qualche difetto. Desidero onorarne il ricordo parlandone con affetto e franchezza e ricordando con lei la sua famiglia, e in particolare la sua Mamma e il suo Papà, sepolti assai vicino.

Luisella (figlia di Ada Valabrega e Guido Ottolenghi), assieme a suo marito Amedeo Mortara (figlio di Roberto e di Marianna Donati) sono due figure speciali per me e la mia famiglia. Sempre vicini e affettuosi, sapevano esprimere accoglienza, amorevole vicinanza, leale dissenso, analisi intelligenti e una capacità rara di andare al fondo delle questioni, che applicavano a ogni cosa, tranne che negli affetti. Erano generosi e stimolanti nelle conversazioni. Avevano entrambi un carattere non facile, burbero lo zio Amedeo, suscettibile la zia Luisella. Vissero momenti complessi, sia nelle loro vicende personali, sia nell’impegno civile, professionale e politico, ma seppero costruire una famiglia duratura e una reciproca amicizia, consolidare affetti, superare difficoltà meglio di tante persone all’apparenza perfette. La loro casa era sempre un luogo di stimoli: non ricordo una visita, un pranzo, una cena di shabbat dove non si parlasse di cose interessanti di attualità nazionale o internazionale, di letture colte, di religione, di economia o di impresa. Furono generosi di simpatia e accoglienza anche con mia moglie Arianna e la numerosità dei bei ricordi ci carica di struggente affetto. Per molti che li hanno frequentati credo che il ricordo più forte e indelebile sia il seder, che Luisella organizzava ogni anno per decine di ospiti nella forma sontuosa, dolce e piena di tradizioni che veniva dalla unione delle usanze delle famiglie Donati e Mortara, e che produsse un modello unico di tale celebrazione mirabilmente esemplificato dalla pubblicazione curata da Rav Bonfil del Sefer Angelo (in memoria di Angelo Donati), nel 1962. Tale ricordo resta per me vivissimo e in quei seder, vissuti soprattutto da bambino, riconosco le parole di Rav Soloveitchik che nel descrivere il ruolo della madre nell’ebraismo diceva: “L’ebraismo è sì intellettuale, ma dà enorme valore all’esperienza: l’esperienza dello shabbat, del seder. Sono eventi non solo rituali, c’è bellezza, dolcezza, calore in essi. Queste qualità non possono essere descritte in un discorso, devono essere vissute. Le esperienze sono comunicate non con le parole, ma con il contatto, con l’osmosi, con un sorriso o con una lagrima. Tutto questo è nelle mani delle madri”.

Ebbene, Raffaella crebbe in questa famiglia impegnativa, con la formidabile ricchezza morale e intellettuale di queste tradizioni, col culto delle nonne Ada e Marianna, e del nonno materno Guido che l’aveva conosciuta come unica nipote prima di morire prematuramente. Si formò con lo stimolo quotidiano di mettere ogni cosa in discussione e con una idea di disciplina cui lo zio Amedeo si affidava sempre, e che invero non era facile da realizzare. Nelle orme dei suoi genitori fu attiva in politica, in particolare negli anni in cui cooperò con l’ufficio stampa di Giovanni Spadolini e con la direzione del Partito Repubblicano Italiano, si impegnò poi nel mondo della cultura ebraica al CDEC, al MEIS e nel sostenere gli studi dei testi ebraici in Ambrosiana. Il suo amore per la lettura e la scrittura la portò a intraprendere anche una carriera editoriale, poi interrotta. Era attratta dalla medicina, ma alla razionalità affiancava una fascinazione per il mistero. Si è formata negli anni che seguirono il 1968, tempi in cui la critica alle convenzioni borghesi si spingeva a trascurare che le relazioni tra le persone si reggono su consuetudini costruite nelle generazioni e incorporate nella cultura e nei costumi. Si possono discutere e migliorare, ma è rischioso abbandonarle, senza radici o alternative ben testate. Nelle temperie tumultuose di quegli anni molte belle intelligenze furono messe alla prova e molte vite promettenti si dispiegarono senza consolidati ancoraggi alla realtà e senza l’umanità che ne deriva. Raffaella in particolare amava la famiglia ed i bambini, e penso che le circostanze e le scelte che la portarono a non realizzare questa inclinazione le siano pesate. Difendeva la sua indipendenza ed emancipazione, ma negli ultimi tempi mi confidava che la affaticava “essere una donna sola”. La sua mamma, la zia Luisella, mi raccomandò molto nell’autunno del 2007 di esserle vicino, anche se vi fossero stati disaccordi. Ho cercato di onorare questa promessa per quanto Raffaella fosse disponibile ad ascoltarmi, ed ho sempre sentito un legame profondo con lei. Credo che anche lei mi abbia donato un affetto autentico, che ci ha mantenuti vicini attraverso gli alti e bassi della vita.

Subito dopo la sua prematura scomparsa ho chiesto a mia figlia Ada di scrivermi come la ricordava e lei mi ha presentato di getto il seguente testo che secondo me coglie, dal particolare punto di vista del rapporto che le univa, la bellezza e le contraddizioni del suo carattere: “Dotata di un’inconfondibile stravaganza e di un caratteristico pizzico di follia, Raffaella Mortara era una donna intelligente, altruista e con un gran cuore. Una dinamo di zia: forte della propria personalità, eccentrica e prorompente. Non una donna sola, ma una donna indipendente, intraprendente. Viveva una vita piena: tra impegni familiari, vizi alle nipotine, filantropia, impegno civile e un immancabile amore per il gusto, la moda e la bellezza. Non si fermava mai. Ci ha lasciato prematuramente, in silenzio. Ci ha lasciati così, increduli, con quell’alone di mistero e imprevedibilità che contraddistingueva il suo carattere. Ci ha lasciato senza parole, come del resto solo lei sapeva fare”.

Vi è una storia hasidica su Reb Meshulam Zusha di Annipol che alla fine della sua vita, nota per la sua mite bontà e saggezza, divenne triste e addolorato. Interrogato dai suoi discepoli spiegò che temeva il giudizio del tribunale celeste, poiché sapeva che non gli avrebbero chiesto: “Zusha perché non sei stato all’altezza del nostro maestro Mosè, oppure Zusha perché non sei stato come nostro padre Abramo, ma gli avrebbero chiesto Zusha: perché non sei stato Zusha?”. Questa domanda, sul potenziale che non realizziamo, accompagna tutti noi. È per me questa la domanda che caratterizza il ricordo di Raffaella. Raffaella sapeva di non essere stata pienamente Raffaella: soffriva di questo e al contempo vi sfuggiva. Dobbiamo sempre imparare dalle persone care e speciali che la giustizia divina ci dà e poi ci toglie, e ciò lo facciamo meditando con attenzione e benevolo affetto tanto sulle loro qualità, quanto sulle loro cadute.

Con la morte senza discendenti di Raffaella si spegne un ramo di famiglia colta, amante dell’ebraismo e delle tradizioni, aperta al mondo, al dialogo e alle novità, ma fiduciosa nella forza che viene dall’antica saggezza del nostro popolo. Siano dunque suoi discendenti le opere buone intraprese, dedicate ai bisognosi, alla cultura ebraica, alla memoria e alla terra d’Israele. Io auguro che il ricordo suo e dei suoi genitori sia così prolungato in benedizione, pregandovi di serbare nel vostro animo i momenti belli che ci hanno dato e gli insegnamenti che la loro vita ci lascia».